Tornare alla Diaz

Gli spazi dilatati, la violenza e la vergogna della vittima impotente, il terrore di essere in mano a qualcuno che dispone della tua vita anche se ”solo” per un’ora e mezza.


Da Genova, Alessandra Fava

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Sono ricordi, immagini, flash drammatici quelli che corrono negli occhi e nella mente delle vittime dell’assalto alla scuola Diaz, avvenuto nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001 a G8 ormai ultimato. Un’operazione di polizia, chiamata nelle carte ”perquisizione” che si è risolta in un pestaggio sistematico su un centinaio di persone tra dentro e fuori, altrettanti arresti. E tra loro una settantina di feriti, alcuni gravissimi, un paio di persone in coma.

Oggi il preside Aldo De Martinis che coordina il liceo sperimentale Pertini – che di Armando Diaz porta solo il nome scritto a caratteri cubitali sulla facciata del palazzo fascista – in compagnia di tre insegnanti ha aperto le porte ad alcune vittime della ”macelleria messicana”. Per la prima volta in dodici anni. ”Da quando ho preso servizio a settembre mi era chiaro che qualcosa bisognava fare – spiega con semplicità il dirigente scolastico – Il giudice Zucca (il pm che fece le indagini insieme al giudice Francesco Albini Cardona ndr.) mi ha chiesto due mesi che ricevessi Mark Covell e questa è stata l’occasione per cominciare a parlarne coi professori. I miei ragazzi a maggio avevano già fatto un’assemblea libera proprio sul G8. Napolitano ha premiato il regista del film sulla Diaz. Ormai i tempi sono maturi. Per sanare una ferita inferta alla democrazia pensavo andasse fatto quello che sto facendo. Mi pare una cosa normalissima”.

Così Lorenzo Guadagnucci, giornalista, percorre a falcate la palestra al piano terra, e punta il dito deciso, in fondo a sinistra: ”Dormivo lì in quell’angolo – racconta – dove c’è quell’asse di legno alla parete. Mi sono svegliato a mezzanotte sentendo i rumori che venivano da fuori. L’irruzione è stata immediata e molto violenta, senza possibilità di reazione. Siamo stati aggrediti, accanto c’era una coppia di stranieri, la ragazza ha preso un calcio in faccia, mi sono avvicinato per aiutarla e due agenti hanno cominciato a colpirmi coi manganelli. Ho cercato con le braccia e le gambe di parare la testa. Ci sono riuscito. Ho riportato ferite agli arti, dei lividi a salsiccia. Il pestaggio è stato relativamente breve. Il peggio è stato il tempo infinito tra il pestaggio e l’uscire di qui anche se in barella o con le ossa rotte. Quell’ora e mezza è stata la dimensione del terrore, del panico, di non sapere come va a finire.  Nessuno sa che siamo qui, – ci dicevano – possiamo fare quello che vogliamo. Lì si sono manifestati i traumi psichici che rimangono per tutti noi. La violenza, la paura di morire non è esperienza comune. A un certo punto ci hanno detto che dovevamo tutti andare contro il muro. Ora vedo che sono pochi metri, ricordo un trascinarmi penoso, ero piegato, non riuscito a muovermi. Saranno dieci metri, mi pareva un’eternità. Poi mi sono appoggiato laggiù sotto le finestre. C’erano decine di persone che piangevano, chiamavano mamma e gli spagnoli gridavano ambulancia. Il sangue, il dolore,lo stordimento. Abbiamo avuto il senso dell’abbandono, essere ridotti a pura carne, nuda vita. Questo è toccare il fondo, sentirsi perduti”.

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Poco più in là Arnaldo Cestaro, il manifestante con più anni tra quelli che avevano trovato ricovero quella notte nella scuola (aveva 63 anni), indica una fetta di parquet, vicino alla porta, a destra. Gliele hanno suonate di brutto, ha riportato due braccia rotte, fratture a una gamba e a diverse costole. Per rimettere a posto il braccio ha dovuto fare due interventi. Oggi gira con una camicia gialla e un fazzoletto rosso al collo con falce e martello: ”Era mezzanotte meno un quarto – racconta col suo accento veneto – Sento un tambusto e dico: sono qua i black bloc e invece la nostra polizia ha cominciato a picchiare. Mi hanno rotto un braccio, poi sono tornati indietro, mi hanno colpito ancora. Ho visto delle cose terribili, quei ragazzi che chiamano la mamma in tedesco, in inglese, in italiano. Non ho fatto niente dicevo, mi avete rotto la testa, una gamba, sangue dappertutto. Ero un po’ svenuto. Ho visto cose incredibili. Erano i miei figli questi ragazzi. Oggi sono qui perchè voglio democrazia, giustizia e libertà. E’ stata una cosa vergognosa. Incredibile. Hanno offeso la democrazia, la nostra dignità, la Costituzione. Il paese è andato indietro. Dobbiamo mettere a posto queste ferite e andare nelle scuole a parlare di quello che è successo. Chi ha sbagliato deve pagare e invece sono ancora al potere”.

Mark Covell è scappato su. ”Non pensavo di amare più. Non volevo vivere più. Ora sono felice, ora sono di nuovo innamorato – ha scritto in una poesia che ha letto domenica sera nella fiaccolata che si tiene da undici anni. Così oggi è abbracciato alla sua fidanzata. ”In questo corridoio una ragazza è stata pestata a tal punto che oggi non è in grado di dire il suo nome – dice Mark – Altri sono stati picchiati poco più in là. Io ero fuori, i poliziotti erano passati, in pratica stavo morendo. Oggi è stato molto importante per noi ritornare nella scuola, negli ultimi dodici anni non abbiamo mai potuto rientrare. Finalmente possiamo riprenderci da questo shock psicologico. Saremo molti di più il prossimo anno e spero anche che appaia una targa in questa scuola per ricordare quella notte’.

La richiesta è stata ricevuta dal consigliere comunale Antonio Bruno della Federazione della sinistra che ha accompagnata la piccola delegazione delle vittime. Tra loro anche i genitori di Sara Bartesaghi, Roberto e Enrica: ”E’ una cosa importante quella che è successa oggi – commenta la presidente del Comitato verità e giustizia che per tutti questi anni si è battuto per seguire i processi del G8 – anche se rientrando ritrovo la rabbia per quello che è accaduto”.
Nel gruppo di oggi c’è anche l’allora portavoce del Genoa Social Forum (GSF) Vittorio Angnoletto che oltre a ritenere opportuno che dopo le sentenze definitive il presidente della repubblica Giorgio Napolitano faccia delle scuse formali alle vittime, chiede che la Diaz sia inserita nei beni storici tutelati dallo stato.

La conclusione della mattinata la lasciamo a Guadagnucci: ”La cosa incredibile è che su un fatto così grave e così importante, ci sia stato questo tabù in una scuola dove si trasmette conoscenza. Però sentendo gli insegnanti non va imputato più di tanto a chi ha diretto questa scuola, quanto piuttosto è una metafora di questo paese che su questa storia non ha voluto fare i conti in nessun momento”.



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