No Tav: la forza e il potere

È un terreno scivoloso quello che sta franando dalle montagne della Val di Susa. Ci sono più livelli che la velocità dell’informazione si sta mangiando, così come l’applicazione da una parte di tecniche sempre più ruvide nella lotta resistenziale al cantiere dell’alta velocità e dall’altra l’applicazione di un doppio livello fra reati contestati e gestione dell’ordine pubblico.

di Angelo Miotto

 

Dipanare la matassa non è così semplice come manifestare solidarietà alla causa dei No Tav.
L’alta velocità in Val Susa è un progetto scientificamente sbagliato, economicamente non sostenibile, annoso e soprattutto messa in pratica con modalità impositive, senza rispettare cioè né la natura né chi vive nella valle.
Questo va detto e nelle parole a link che trovate in questo articolo trovate molto del lavoro che è stato fatto in passato su E il Mensile e PeaceReporter.

Senza assumere questo primo dato è difficile avere la capacità di giudicare, né valgono su un tema così delicato, le quattro chiacchiere al bar.

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La lotta dei No Tav è diventata nel tempo una bandiera che è stata raccolta da diversi movimenti, anche e forse proprio perché alla fine riassume una questione di rispetto per la terra e l’habitat dell’uomo contro uno sfruttamento ‘intensivo’ in nome della velocità e del progresso. A chi contesta che il movimento No Tav non è altro che un’accozzaglia di retrogradi anacronistici, forse vale ricordare che il trasporto merci su rotaia potrebbe correre durante la notte sulla linea ad alta velocità già esistente in Italia. Peccato, che non siano stati costruiti i treni necessari, che hanno caratteristiche ben diverse da quelli che trasportano passeggeri.

Nel movimento No Tav, come in ogni movimento che si rispetti, ci sono diverse anime. È un dato di fatto, non un’affermazione per dividere buoni e cattivi, ma una riflessione sulle pratiche che vengono messe in atto è indispensabile per comprendere.
Quando il cantiere è stato di fatto militarizzato si può ragionevolmente dire che sia avvenuto un primo punto di rottura. Il livello del confronto non poteva che alzarsi, laddove un progetto viene calato dall’alto, si fa beffe della contestazione e richieste di spiegazioni, viene sostenuto dalla politica maggioritariamente come una prova di rapporti di forza che vedono lo Stato inflessibile, quando viviamo esattamente in una dimensione paradossale, cioè in uno Stato in cui troppo spesso le regole subiscono corto circuiti che rendono la coerenza uno straccetto e le regole, sempre più spesso, tagliate su misura.

Alcuni giorni fa, rispetto alle botte prese dai manifestanti e l’infame caso di molestie denunciato da Marta, militante che ha detto di essere stata palpeggiata durante il suo fermo, ero in macchina con la radio accesa. Rispetto alla tesi del conduttore, Cruciani della Zanzara, che diceva: se ti scontri con la polizia ci sta che ti pigli i manganelli in faccia, mi ha colpito la telefonata di un giovane ascoltatore che ha preso la linea e, cito a memoria, ha detto: “Ma allora quando è lo Stato a essere violento contro i cittadini, scusi, che dovrebbero fare questi? Prenderlo a manganellate?”. Interessante punto di vista. Una domanda che spiazza, laddove in ossequio alle regole della convivenza di una comunità, che si dà dei principi formali e delle leggi da osservare, ormai pare automatico che in caso di protesta si possa ricorrere ai gas, ai manganelli e a quella parola ormai così vuota che è ‘alleggerimento’. La carica di alleggerimento è un tecnicismo da OP ordine pubblico, eppure non è che alleggerisca quasi mai una situazione, anzi provoca una reazione rabbiosa e un gioco di azione-reazione.

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Se c’è una cosa che abbiamo imparato studiando la storia è che se un problema è politico ha bisogno di soluzioni politiche e cioè di dibattito e di una grande disposizione all’ascolto, oltre che all’affermazione stentorea delle proprie ragioni.
Oggi si parla dei materiali che hanno portato alla contestazione dell’articolo 280 codice penale, dove spunta l’eversione e il terrorismo. I linguaggi, anche quelli dei manifestanti più ‘attivi’ parla di vittoria o sconfitta, tertium non datur. Eppure se ‘è un soggetto che dovrebbe porsi un grande problema, a questo punto, è quello che detta l regole di convivenza ed è chiamato a farle rispettare. Una gran parte dei militanti attivi non riconosce lo Stato. La Val di Susa ha una storia che non si deve mai dimenticare.
Non è solo per la simpatia e l’adesione alla lotta No Tav che si deve denunciare e dire che avere una divisa comporta, volenti o nolenti, una responsabilità in più. Che contestare il lancio di molotov ad altezza d’uomo, con le prove, non fa una grinza. Come non fa una grinza, con le prove, dire che chi spara candelotti lacrimogeni ad altezza d’uomo dovrebbe a questo punto essere perseguito con la medesima foga. Non c’è una violenza buona e una cattiva. La violenza è sbagliata in sé, specie quando scatena la furia.

Siamo, come cittadini, ostaggio di diverse tensioni in questa lotta per il territorio e per chi lo abita. Delle decisioni di chi è chiamato all’interpretazione di un codice, di chi è chiamato a gestire l’ordine pubblico e lo fa mettendosi sulla linea della legge del taglione, di chi ha imposto da anni una decisione che non ha più elementi per trovare una plausibile giustificazione e di chi, è giusto dirlo, interpreta a sua volta questo terreno di scontro per affermare una propria linea di azione anti Stato e anti sbirri, per capirci al volo.
Ma le responsabilità non sono eguali: quelle personali vanno perseguite in presenza di reato. Senza scomodare i codici fascisti – quanti danni sta facendo l’applicazione di devastazione saccheggio? – perché la civiltà giuridica non si è fermata ai tempi del littorio ed è evidente che ha bisogno di attualizzare i propri strumenti.

E allora? Già si può udire la critica: divise solo come bersagli? Ai cappucci i diritti e ai tutori della legge le bastonate o peggio?
Qui torniamo in cima. Perché per arrivare fino a qui si sono stratificate leggi, comportamenti, pratiche sbagliate. Ora siamo arrivati all’ennesimo giro di vite. E non è una buona notizia, perché chiama alla radicalizzazione dello scontro.
Non ci si è arrivati così, di colpo. Ricostruire e riflettere forse non aiuta nel breve periodo e vedremo cosa accadrà, ma non si possono commettere con ostinazione gli stessi errori del passato.

 



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