Morsi, iconografia di un martire annunciato

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/08/laurasilviabattaglia.jpg[/author_image] [author_info]di Laura Silvia Battaglia, dal Cairo.
Giornalista dal 2000. Ha esordito nel 1998 come cronista di bianca e nera per il quotidiano La Sicilia di Catania. Oggi lavora per la redazione esteri del quotidiano Avvenire. Come freelance collabora con il settimanale Terre di Mezzo, con l’agenzia Redattore Sociale, con i network radiofonici Radio Popolare e Radio In Blu, e con RAI News24. È caporedattore del sito www.assaman.info rivolto ai migranti senegalesi. Da alcuni anni, dopo una specializzazione per giornalisti in aree di crisi, si dedica al reportage in zone di confine e di conflitto etnico e/o religioso (Libano, Israele e Palestina, Gaza, Afghanistan, Kosovo, Serbia) e cerca di raccontare l’altro attraverso la scrittura, i suoni, le immagini. Ha recentemente seguito sul campo le rivoluzioni in Egitto, Libia, Senegal e si accinge a seguire la situazione politica in Iran. Ha vinto il Premio Giancarlo Siani (2010) per il video Maria Grazia Cutuli. Il prezzo della verità e il Premio Anello Debole (2008) per il corto Latin kings. I re della strada. Il suo ultimo documentario sulla rivoluzione libica, “Al hurria – L’altra faccia della liberta’” e’ stato acquistato da RaiTre, per il rotocalco di Esteri Agenda del Mondo. E’ tutor del Master in Giornalismo dell’Università Cattolica di Milano dal 2007.[/author_info] [/author]

articolo tratto da Battgirl.info, sito personale di Laura Silvia Battaglia

14 agosto 2013. ll ritratto di Mohamed Morsi campeggia ovunque. Sui volantini distribuiti dopo la preghiera dell’alba, sugli autobus bianchi dei Fratelli Musulmani parcheggiati all’ingresso del grande campo di Rabaa al-Adawjia, sui carretti della distribuzione di the, acqua, bevande e succo di melograno che punteggiano la via per arrivare alla roccaforte della protesta anti-generali.

Il volto del politico che Time incoronò “uomo dell’anno” nel 2012 è replicato ossessivamente, come in un videogioco a punti con una grafica splatter, sopra, sotto e di fronte alle migliaia di tende che ricoprono questa superficie di centinaia di metri quadri al Cairo brulicante di supporters dell’ex presidente egiziano dal 3 luglio 2012, data del suo arresto con l’accusa di cospirazione.

Mohamed Morsi qui è onnipresente, guarda i suoi fedeli dall’alto del suo ritratto peggiore, ingessatissimo nel fermo immagine che sancisce la sua sacralità. Così replicato ovunque appare come un cento occhi e centoteste, una creatura medievale dalla faccia presentabile che si allunga sugli esiti del colpo di stato di un mese fa. Un colpo di stato che chiunque si guarda bene, qui, a Rabaa al-Adawjia, dal definire seconda rivoluzione o contro-rivoluzione.

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Mohamed Morsi, ora prigioniero a Nord del Cairo, dove si trova il ministero della Difesa, è colui nel cui nome si circoscrive la preghiera dell’alba di Eid, e che nel giorno più importante dell’anno per la Umma sunnita si manifesta al campo di Rabaa nel pomeriggio, per interposta persona: la moglie Nagla Mahmoud.

Per lui si chiede la liberazione e nel suo nome viene già giustificata la resistenza dei Fratelli musulmani verso l’apparato di potere dei generali, che ha utilizzato l’esito delle votazioni prima, il temporeggiamento dei Fratelli poi, la loro interpretazione integralista della futura costituzione, per riprendere con la forza il controllo di un Paese ormai allo sbando, economicamente piegato da una credibilità ai suoi minimi storici.

“Io amo Morsi”; “Morsi, Morsi, in te la speranza”; “Morsi Morsi sempre Morsi, mai più Al Sisi”: sono alcuni degli slogan che campeggiano insieme all’immagine dell’ex presidente egiziano. Si alternano anche sulle fasce – verdi, nere, marroni – che la gioventù ihwanizzata sfoggia intorno alla testa, replicando l’iconografia jihaddista in forme moderate: “Il popolo arabo è la comunità islamica”. “Siamo arabi, moriremo islamici”.

L’appartenenza alla Umma sunnita, per i Fratelli musulmani, non si discute. Vale per tutti, da qualsiasi grado di vicinanza o distrazione del partito e dalle sue istanze si stia parlando. Ed è perfettamente connaturata con l’interpretazione del rispetto dei diritti umani che, per i supporters di Morsi, discende solo da Dio ed è strettamente collegata alla legge di natura che segue i dettami di Allah, secondo quanto ne rivelò Mohammed.

Lo dice senza tema Sara Hassan, ventenne di El-Adwah, la città di nascita dell’ex presidente oggi ostaggio di Al Sisi. La sua famiglia è cresciuta accanto a Morsi. In senso letterale, perchè sono sempre stati suoi vicini di casa. Campeggiano qui da giorni e hanno pure affittato un appartamento in zona per stare più comodi. Ci sono tutti: padre, madre, cugini, fratelli e sorelle, zie e nipoti. Morsi per tutti, tutti per Morsi, insomma. Ma la motivazione che li spinge fin qui non è squisitamente politica. L’ideale di famiglia e l’appartenenza alla Umma sono abbastanza. Ma la conoscenza diretta del personaggio spiega ancora di più la scelta di stare dalla sua parte, costi quel che costi. Dice Sara: “Noi lo conosciamo: è un uomo buono. L’hanno esposto e ne paga il prezzo. Adesso è in carcere e siamo certi che il trattamento riservatogli non è umano”.

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Chiediamo che tipo di valenza ha il concetto di rispetto dei diritti umani per i Fratelli Musulmani. Risponde: “Il rispetto dell’uomo  viene dal fatto che l’uomo appartiene a Dio”. E chi non appartiene a quel Dio? “Non saprei. Quel che so è che l’Egitto è un Paese islamico, noi siamo islamici e Morsi è il nostro presidente. Nell’Islam il rispetto dell’uomo viene dalla sua conoscenza di Dio. Morsi è un uomo timorato di Dio, ha portato avanti la nostra causa, noi dobbiamo adesso batterci per lui”.

Sara è una ragazza laureata, progressista, una giovane donna musulmana tosta, pronta per fare una buona carriera nei quadri dei Fratelli, se le fosse data la possibiità. Morsi per lei è già un mezzo martire. E lo è per tutte le persone, che, sulla strada del campo, lastricata da molte buone intenzioni, lo hanno eletto a icona della rivoluzione incompiuta o, meglio, ingiustamente ribaltata. La sua detenzione, nonostante Morsi sia inizialmente asceso al ruolo di guida dei Fratelli quasi come un ripiego necessario, ne ha già fatto un gigante morale.

Se il nuovo governo non dovesse scarcerarlo, se lo processasse o  se in qualche modo se ne favorisse la morte, gli effetti saranno amplificati sugli ihwan egiziani ma anche su tutti gli  arabi sunniti del Medio Oriente. Alla causa palestinese per la quale tutti i popoli arabi si sono sentiti in dovere di aderire nella lotta comune, se ne potrebbe aggiungere un’altra.

Sarebbe il primo caso in cui parrebbe possibile incitare alla resistenza – dei fedeli prima e al martirio dei combattenti poi – per difendere un leader pacioccone e perditempo, un martire in pectore che non si sarebbe davvero speso con opere o azioni degne di nota per il suo popolo di elettori e, soprattutto, per un Paese dalla storia ingombrante.

Lo scorso 29 luglio, ormai conosciuto come “il massacro di Rabaa”,  nella roccaforte dei pro-Morsi sono morte 127 persone e 4500 sono state ferite negli scontri con l’esercito e la polizia. Chiedevano tutte di relegittimare Mohammed Morsi come presidente dell’Egitto.



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