La cultura si mangia

Guanda, collana le fenici rosse, di Bruno Arpaia e Pietro Greco, pagg 174 per 12 euro (ben spesi).

di Angelo Miotto

 

Si parte con una citazione del 10 novembre del 1848. È di Victor Hugo.
“Io dico, signori, che le riduzioni proposte sul bilancio specie delle scienze, delle lettere e delle arti sono negative per due motivi. Sono insignificanti dal punto di vista finanziario e dannose da tutti gli altri punti di vista”.

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È un pamphlet. È ritmato, ricco di numeri, agile da leggere, ma soprattutto necessario.

Lo scrivevamo già in un altro articolo di Q Code Mag, quando abbiamo firmato la profezia che solo la cultura potrà farci dimenticare oltre vent’anni di desertificazione di Berlusconi e la coda lunga del berlusconismo. Queste 174 pagine andrebbero trasformate in un format televisivo, radiofonico, alcuni numeri dovrebbero trovare rappresentazione in belle mappe concettuali, infografiche accattivanti.

La cultura si mangia è un titolo che si imponeva, per i due autori, dopo l’ennesimo fenomeno di battutismo da Palazzo del 14 ottobre del 2010, protagonista l’allora ministro Giulio Tremonti. “Con la cultura non si mangia”, sentenziò divertito e per non farsi mancare nulla aggiunse: “Di cultura non si vive, vado alla buvette a farmi un panino alla cultura, e comincio dalla Divina Commedia”. Tremonti, ci ricordano Arpaia e Greco, tagliò conseguentemente un miliardo e mezzo di euro alle università e otto miliardi alla scuola di primo e di secondo livello, oltre al Fondo Unico dello Spettacolo (FUS). Il governo Prodi non arrivò a tanto, ma la scure sui finanziamenti non rimase inoperosa.

Vediamo la struttura:

1. Pane e cultura: una introduzione a tutto campo e si inizia a gettare il seme per arrivare all’economia e alla società della conoscenza.

2. Numb3rs. Di cosa parliamo quando parliamo di cultura. Numeri e statistiche che offrono un quadro desolante della nostra realtà e che indicano, invece, casi di successo all’estero.

3. L’Italia è fuori, Il titolo è più che mai chiaro per questo capitolo

4. Lo spettro del Kulturstaat. Il ruolo dello Stato, con tutte le ‘paure’ (scuse?) di una pianificazione e di un investimento che parta dalla centralità del pubblico, dagli investimenti del Paese.

5. Le città visionarie. Capitolo di grande utilità pratica, per capire come Bilbao, Trieste e la Ruhr siano state capaci di adottare una visione e di arrivare a una eccellenza, anche sotto il profilo dell’economia e dei guadagni.

6. Democrazia precaria. Sono il popolo più numeroso oin Italia, in questo settore della conoscenza. Precari, ostacolati, senza un futuro e senza aiuto o appoggi, mentre nel resto del mondo le cose vanno diversamente.

7. Il presente e il futuro. Le considerazioni finali, che citeremo alla fine di questa recensione.

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La disamina, appassionata, di Arpaia e Greco ci porta fra dati ed esempi tangibili, con il valore aggiunto di disvelare anche al lettore più scettico, quali e quanti siano e siano stati gli errori e i ritardi commessi dalla classa dirigente italiana  – parlare unicamente di politici sarebbe riduttivo – e quanto ci sia da recuperare. La parola chiave è un verbo: investire. Lo hanno fatto tutti i grandi statisti, specie in tempi di recessione. La destinazione di questi investimenti è chiara: quell’economia della conoscenza, che veniva già propagandata negli anni scorsi a livello europeo e internazionale, che qui in Italia non solo non ha trovato adepti, ma come recita il titolo del libro fieri oppositori. Fieri di un’ignoranza e di una scarsa capacità doi lettura di dove si stia posizionando l’asticella della vera competitività internazionale, come ci dimostrano i numeri del libro.

Arriviamo alla fine, senza svelare il nome dell’assassino, che non è solo, né unico, ma ha vestito diverse giacche negli ultimi trenta/quarant’anni.
Ce la potremmo fare. Ma. Quando si affronta il capitolo di quello che ci dovrebbe essere dentro un programma politico alla voce ‘cultura’, dove si intende un concetto ben più esteso che si spinge fino alle nuove tecnologie e alla formazione, si capisce che abbiamo un grande problema politico. Di visione del mondo. Lo scadimento della contesa elettorale ci ha portato a subire campagne elettorali continue su pochi temi, con promesse e numeri falsi, con una miopia stupefacente.

“E’ necessaria una vera e propria rivoluzione culturale – scrivono i due autori, ormai nostri beniamini – che ci faccia tornare a credere nel valore delle idee […]. Un meccanismo che renda vera la profezia di Dostoevskij secondo la quale sarà la bellezza a salvare il mondo.

Noi ci crediamo, scrivono gli autori, con un ammonimento che suona drammatico, speriamo non tragico. “Ma non ci è rimasto molto tempo”.



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