Peperoni: l’odio chiama odio

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Sono passati almeno 10 anni dallʼuscita di ognuno dei film che rivisiteremo in questo spazio, eppure, nel bene o nel male, nulla pare essere cambiato. Pare che le tematiche siano più attuali del previsto. Dunque, si ripropongono, proprio come i peperoni. Speriamo solo di digerirli il prima possibile[/note]

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/07/Schermata-2013-07-12-alle-14.20.02.png[/author_image] [author_info]Alice Bellini. Dovendo rinunciare alla sua aspirazione Jedi per cause di Forza maggiore, si laurea in cinematografia tra Londra e New York, con la speranza di potersi definire quanto prima una scrittrice. Già redattrice di cinema per altre testate online indipendenti, non è una critica di nulla, ma le piace dire la sua, sapendo che, comunque, la risposta a tutto è inevitabilmente 42.[/author_info] [/author]

 

Cominciamo dalla fine.

Questo è l’articolo di una società che precipita e che mentre sta precipitando si ripete per farsi coraggio: ‘è una guerra per la pace’, ‘è un’azione limitata’, ‘sono morti chimiche’, ‘è una questione di protezione’. Il problema però non è la caduta, ma l’atterraggio.

Il problema è che è più importante come si viene ammazzati, invece che il fatto che si venga ammazzati di per sé. In un mondo sensazionalista come il nostro, la morte non ci soddisfa più. E allora contorcersi con la bava alla bocca diventa peggio che scoppiare in un’esplosione, o spezzarsi per una scheggia nella spina dorsale, o essere giustiziati con una fucilata, o essere pestati accidentalmente a sangue. Eppure, chissà perché, ero convinta non esistesse una guerra più atroce delle altre. Una violenza più disumana. Una scusante valida. Un “potere valido”, come lo definisce Christian Elia in un editoriale davvero da leggere. Ero convinta non esistesse un potere che legittimasse la guerra. Anzi no, la violenza. Anzi no, l’odio.

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Cosa intendo per odio?

Potremmo parlare della Siria. Del fatto che di persone ne sono morte più di centomila dall’inizio del conflitto, ma sono servite le armi chimiche e le foto dei bambini morti senza macchia di sangue per svegliare la sensibilità pubblica – che non è quella di Obama, quella è solo sensibilità a un interesse personale, che Robert Fisk sembra chiamare Iran e non so perché la cosa mi sembra davvero convincente. Potremmo, ma non basta. Allora potremmo aggiungere l’Egitto, che invece di pensare al fatto che ci sono persone che stanno morendo, ci si chiede se sia giusto o meno, se se la siano cercata o meno, dove giace la ragione e dove il torto. Ma ancora non basta. E allora potremmo aggiungere alla lista anche dell’Afghanistan. E la Palestina. Il G8 e la Diaz. Giuliani. Cucchi. Aldovrandi. E gli scontri tra NO TAV e polizia. Datemi un atto di violenza, uno qualunque, anche la scazzottata sotto casa. Ci metterò dentro anche quello. E forse, purtroppo, ancora non basterebbe. Perché i motivi non bastano. I motivi non sono mai buoni. Impara la causa e mettila da parte, se poi si è ciechi di fronte alle conseguenze. La violenza è violenza. E la morte è morte. Non credo ci possa essere una giustificazione. E non parlo di pacifismo o di fratellanza. Né di sottomissione. Né tantomeno di perdono. Non sto parlando di porgere l’altra guancia, perché non ho mai creduto fosse un atteggiamento saggio. Sto parlando di come si sceglie di non perdonare, di come si sceglie di reagire una volta che si è ricevuto uno schiaffo. L’alternativa al perdono non è la morte. Come l’alternativa alla guerra non è la guerra. Perché l’alternativa alla violenza non è mai la violenza. È solo uno sfogo facile.

Per quel che mi riguarda, non è tanto al perdono o al pacifismo che gli esseri umani vanno educati, quanto alla convivenza. Che sia convivenza di culture, religioni e lingue, o con un torto subito, un’ingiustizia, o un sopruso. Convivere, che non è accettare, ma saper affrontare il problema in maniera adeguata. Convivere, che non è accettare, ma educare. Perché punire è giusto e importante, ma bisogna farlo nella maniera corretta, senza mai sottovalutare la capacità altrui di capire e imparare dai propri sbagli, senza sottovalutare la capacità altrui di capire e attuare un cambiamento. Senza sottovalutare la capacità altrui di pentirsi e fare ammenda. Punire infliggendo la stessa pena per cui si punisce è ridicolo e fine a se stesso. Genera un circolo vizioso. Non insegnerà mai nulla di nuovo. Ed è un’ingiustizia tanto quanto quella subita, per quanto ignobile.

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Educare che non con la morte si risponde alla morte. Non con il massacro si risponde al massacro. Non con la rabbia alla rabbia. E non con l’odio all’odio.

[blockquote align=”none”]Perché l’odio chiama l’odio. È quello che dice anche Hubert in una pellicola mozzafiato del 1995, firmata Mathieu Kassovitz e intitolata, emblematicamente, L’Odio. Per chi non l’avesse visto, la trama è semplice: un ragazzo delle banlieu parigine viene ucciso dalla polizia. Vinz, uno dei tre protagonisti, lo vuole vendicare, uccidendo a sua volta un poliziotto. Il finale è semplicemente sconvolgente e pregno di riflessione e significato. E dopo aver dato la colpa a tutti e a nessuno, Kassovitz lascia saggiamente allo spettatore il compito di additare qualcuno, o qualcosa, che se la prenda senza mezzi termini. [/blockquote]

È una pellicola che coglie il pretesto per parlare più ampiamente di odio, appunto. Di come la vendetta sia la strada più facile, immediata e soddisfacente, ma mai la più giusta. Anzi, molto spesso è la più idiota. Di come l’onestà stia nella ragione e non nell’istinto. Di come siano comprensibili certe reazioni, ma come comunque rimangano sbagliate. E di come la scelta più giusta non sia mai la più facile, perché costantemente messa alla prova e fomentata da una rabbia che è difficile, ma necessario domare.

Per una buona parte del film, i tre protagonisti si domandano cosa voglia dire la storia raccontatagli da un personaggio non meglio identificato, incontrato per caso in un cesso pubblico, eppure tra i più emblematici di tutta la pellicola.

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Tradotta, la storiella potrebbe suonare anche così: in preda al proprio istinto, la violenza ne ha ammazzato uno, ma l’altro stava per vendicarlo, quindi lei ha ammazzato anche quello, ma allora c’era l’altro ancora che stava per vendicarsi anche lui, così lei s’è girata per ammazzare anche quello. E così via. E poi cosa è successo? Niente: sono morti tutti.

Ecco, la storia è più o meno questa, che avvenga in Siria, in Egitto, in Palestina, in Italia o in qualunque altra parte del mondo. E che i morti siano uno o 100.000, per mano della polizia, di una bomba o di un gas tossico, per cause politiche, religiose o culturali non fa la benché minima differenza. S’intensifica e basta. E che la scusa sia l’attacco o la difesa, beh, poco importa. Sempre di violenza stiamo parlando.

E purtroppo è un circolo vizioso dal quale dobbiamo uscire da soli, perché ai “grandi capi” fa solo che comodo. Tant’è che non fanno nulla per educare i loro popoli alla convivenza, ma anzi, li imboccano a suon di vendette, attacchi e difese. Ragioni. Superficialità. La sostanza delle cose è sempre l’ultima a essere presa in considerazione, sempre che si decida di farlo. E mentre noi siamo intenti a cercare di prendere la mano del nostro compagno da una parte e a tirarci su i pantaloni dall’altra, ci scordiamo che il treno su cui stiamo disperatamente provando a salire è un treno diretto verso i campi di concentramento siberiani. E finché il treno corre sulle rotaie, allora tutto bene. Al massimo non è cosa facile farsi la propria cacata in santa pace. È quando atterra, quando arriva a destinazione, che allora è un problema. Ma a quel punto sarà troppo tardi. E se non è per il freddo che saremo già morti, sarà per qualcos’altro.

[blockquote align=”none”]Distratti a contare i morti, a discutere di come sono stati uccisi, del perché e del percome, ci scordiamo di preoccuparci del fatto che si tratta, in primis, di morti ammazzati. E ciò che è peggio è che pensiamo di essere noi, spontaneamente, a sorprenderci di tutte queste violenze. Che siamo noi, ormai esasperati, a svegliarci un giorno e protestare, chiedendo che qualcuno intervenga per fermare l’ingiustizia. Ma neanche questo è vero. Ci stupiamo a comando, laddove serve e quando serve a chi deve intervenire, a chi deve giudicare, a chi deve fare giustizia e a chi la pretende. Lo stupore è solo un’altra forma di distrazione. Le armi chimiche sono già state usate innumerevoli volte. Eppure questa è la prima volta che rimaniamo così colpiti, così indignati. Dopotutto, serve chiamare odio per chiamarne poi altro.[/blockquote] 

E quindi, iniziamo con la fine, sperando di tornare all’inizio. A quell’inizio in cui un’ingiustizia era un’ingiustizia e basta, senza necessità di precisarne la nazionalità, le cause, le conseguenze e le dinamiche. In cui l’accettazione non era considerata una forma di sottomissione, ma di superiorità intellettiva. In cui il punto non era cercare di salire su un treno per la morte per non morire di freddo, ma cercare di non salirci a priori. In cui non s’aspetta di schiantarsi per capire che le cose non stanno andando bene neanche un po’.



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