Un metodo per la pace

[author] [author_image timthumb=’on’]http://www.buongiornoafrica.it/wp-content/uploads/2012/06/raffa01.jpg[/author_image] [author_info]di Raffaele Masto. Faccio il giornalista e lavoro nella redazione esteri di Radio Popolare. Nei miei oltre venti anni di carriera ho fatto essenzialmente l’inviato. In Medio Oriente, in America Latina ma soprattutto in Africa, continente nel quale viaggio in continuazione e sul quale ho scritto diversi libri dei quali riferisco in altri spazi del blog www.buongiornoafrica.it. Insomma, l’Africa e gli africani, in questi venti anni, mi hanno dato da vivere: mi sono pagato un mutuo, le vacanze e tutto ciò che serve per una vita di tutto rispetto in un paese come l’Italia.[/author_info] [/author]

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Che abbia vinto il premio Nobel per la Pace non fa testo perché lo ha vinto anche Barak Obama che sta per scatenare la sua guerra contro il regime siriano di Bashar Al Assad.

Sto parlando di Leymah Gbowee, 41 anni, liberiana che recentemente ha pronunciato queste parole che cito testualmente: “Dialogo, dialogo e ancora dialogo. In Siria prima di tutto è necessario un cessate il fuoco per creare le condizioni di un confronto. Le diverse fazioni politiche, etniche e religiose devono essere invitate a partecipare a un tavolo per rimuovere i rancori e gli stereotipi distruttivi che hanno alimentato la guerra. Il dialogo è il mezzo indispensabile per una conclusione pacifica”.

[blockquote align=”none”]Si, lo so che mi si potrebbe obiettare che non c’è nulla di nuovo in quelle parole e che in Siria la comunità internazionale, con tutti i limiti, ha cercato di applicarle fallendo miseramente, cioè dividendosi e peggiorando la situazione. Del resto lo stesso Papa ha detto ha espresso l’identico concetto: “La violenza porta altra violenza. La guerra non ha mai risolto nulla”.[/blockquote]

Le parole di Leymah Gbowe però hanno una forza dirompente perchè con quei concetti che esprimono lei, in Liberia, ha fortemente contribuito a avviare un dialogo in una guerra che ha fatto 250 mila morti, che sembrava non avere sbocchi, che era dimenticata dal resto del mondo.

Come dicevo nel post precedente la pace non è un concetto astratto: è una modalità, un metodo. Quello di Leymah Gbowee fu originale, dirompente, perfettamente comprensibile nel suo paese. Mobilitò le donne che in Africa e in Liberia di solito sono defilate, non intervengono, lasciano fare agli uomini e delegano a questi le cose importanti. Ma quando si muovono, quando dicono qualcosa vuol dire che non ne possono proprio più, che è stato superato il segno. E allora vengono ascoltate…

Adottò il metodo ghandiano dei sit-in. Continui, assillanti, soffocanti. Prese di mira i palazzi dei potenti, quelli dove si svolgevano inconcludenti trattative. E aveva a che fare con personaggi che non erano dei… fiorellini. Il presidente della Liberia era un certo Charles Taylor condannato per crimini di guerra all’Aja.

Ma soprattutto Gbowee adottò un sistema che non poteva lasciare indifferenti: minacciava, assieme alle sue militanti, di denudarsi in pubblico se non si fermava la guerra. Nella cultura africana una donna che fa un gesto di questo genere umilia l’uomo che l’ha portata a tanto. Era quello che lei voleva fare con gli svariati signori della guerra di quel tempo che alla fine furono costretti a trovare un accordo.

Un esempio di una protesta di questo genere la si trova in un bellissimo libro sulla Nigeria che ho già segnalato su questo blog: “Un cielo pieno di lucciole” di Christie Watson, ambientato nel Delta del Niger.

 

 



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