Ritorno in Senegal

Un senegalese, due amici italiani, a metà strada tra due case, il viaggio di J. dall’Italia al paese africanoun ritorno a casa atteso cinque anni. E raccontato tra sorpresa e speranza

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[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/09/Ilaria_Brusadelli.jpg[/author_image] [author_info]Ilaria Brusadelli, classe 1986. Ha la testa fra le nuvole ma i piedi per terra. Giornalista, perché è una buona scusa per conoscere il mondo e fare domande[/author_info] [/author]

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/09/Marco_Besana.jpg[/author_image] [author_info]Marco Besana, classe 1983. Gran sognatore. Gran viaggiatore. Giornalista perché è più facile raccontare gli altri che se stesso[/author_info] [/author]

Ilaria e Marco sono tra i fondatori dell’associazione ¡NO MÁS!

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1^ puntata – In partenza per il ritorno

16 settembre 2013 – Era da 5 anni che J. mancava alla festa del suo villaggio, mille anime sul delta del Sine Salum, in Senegal.

Come dice lui, era in Italia a “imparare la vita”. Cinque anni per imparare sì una nuova vita, dove tutto era diverso. Una nuova lingua, la neve, i documenti per ottenere il permesso di soggiorno.

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Diverso dalla realtà di D., un piccolo villaggio a metà strada tra Dakar e il confine con la Gambia, che si affaccia su una laguna e, dopo qualche chilometro di mare e mangrovie, sull’oceano.  È un territorio sérèr , quello di D., dove la quasi totalità della popolazione appartiene alla terza etnia del Senegal, una delle più antiche, delle più autorevoli. Sérèr era Léopold Sédar Senghor, il primo presidente senegalese che, proprio in questo villaggio, crebbe in una casa che ancora occupa uno dei lati della piazza.

C’è una grande festa, il 15 agosto, a D.. Una festa cristiana, ma a cui partecipano centinaia di persone da tutti i villaggi limitrofi: villaggi in cui cristianesimo, islam e animismo convivono e si mischiano; in cui le etnie, i wolof, i sérèr, i fula si fondono in un unico popolo.

È da quando lo conosciamo che J. ci racconta di questa festa, i cui particolari sono aumentati, negli anni, con il migliorare del suo italiano, ancora “sporco” ma ormai fluente; lontano da quella manciata di parole incerte che conosceva quando, nel 2007, è arrivato da clandestino nel nostro Paese.

Studiava per diventare meccanico, J.. La sua storia comincia proprio da quella scuola, con la quale raggiunge la Francia per uno stage e, da cui, prima del rientro in Senegal, scappa con pochi euro in tasca e tanti sogni in testa. La stazione di Bordeaux  e il primo treno che parte per una meta qualunque, purché lontana da quel Paese che non poteva offrirgli il futuro di agiatezza e serenità che sognava a poco più di vent’anni.

Milano Centrale è la stazione d’arrivo; l’Italia è la meta giusta, quella che aveva accolto i suoi compatrioti negli anni ‘90 e che – dicevano tutti – li aveva fatti tornare ricchi. Così se la immaginava, J.: un Paese in cui era possibile cambiare vita, in cui rimanere pochi anni e poi tornare con più soldi, con più possibilità.

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Ma l’Europa e l’Italia raccontate nei villaggi senegalesi non sono quelle che J. incontra di persona. L’accoglienza sognata si rivela indifferenza, il riscatto si trasforma in discriminazione, il lavoro sicuro lascia il passo alla clandestinità, alla vendita di CD e braccialetti nei parcheggi dei supermercati.

J. ricerca la comunità senegalese per trovare una casa e, soprattutto, per sentirsi a casa, ma non è facile. Viene ospitato da diverse persone; accolto nelle case sovraffollate di quegli stessi compatrioti che si immaginava ormai arricchiti, passa la maggior parte delle sue giornate in strada, con il freddo che gli divora i piedi e gli entra nei polmoni.

I mesi senza documenti, i primi lavori i nero, i fermi della polizia e la paura dell’espulsione. Poi, la sanatoria: qualcuno lo aiuta, lo assume come badante: J. riesce a regolarizzarsi.

Ora ha un permesso di soggiorno, un lavoro e una casa. Ha imparato che l’Italia è dura (sono mesi che non viene pagato, pur avendo un contratto regolare), ma anche quali sono i diritti per cui è giusto battersi. In Italia ha imparato ad avere rispetto e non paura delle autorità, ha capito come guadagnarsi la vita; in Italia è diventato uomo.

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Ed è da uomo che J. è ritornato, quest’anno, alla grande festa del 15 agosto.  “Ogni anno i suoi amici ci chiedevano se sarebbe tornato” ci racconta sua sorella mentre prepara il succo al karkadé e al baobab per il grande pranzo in famiglia, “senza di lui, la festa non sarebbe stata la stessa”.

Non è tornato in aereo, J.. In Italia ha comprato una macchina e si è messo in viaggio: Milano, Genova, il Marocco, la Mauritania, il suo Senegal.

L’ha comprata per venderla; in un Paese in cui le auto importate, vecchie e di scarsa qualità, costano molto più di quanto potrebbero essere pagate in Italia; in un Paese in cui metà dei suoi amici – come lui stesso, prima di partire – con queste macchine ci lavora, accompagnando i turisti nei luoghi più belli del Senegal.

L’ha comprata anche per se stesso. Per dimostrare alla sua famiglia che ce l’ha fatta. Arrivare in auto, un’auto nuova, non è da tutti, a D.,e, in qualche modo, tutti se lo aspettano da chi, ormai, vive in Europa. J. ha imparato a distinguere il sogno europeo dalla realtà, ma la sua gente ancora no. Ed è dalla sua gente, che ora ritorna; anche a loro, alle loro aspettative e ai loro sogni, deve qualcosa, in fondo.

Agli amici che gli chiedono aiuto per venire in Italia J. consiglia di rimanere in Senegal.  “Qui troverai sempre un piatto pronto” ci spiega. “È  troppo difficile vivere in Europa e quando sei qui non te ne rendi conto. Alcuni miei amici hanno pensato di andare in Marocco e prendere uno di quei barconi. Anche io ci avevo pensato, ma ora so cosa accade e cosa ti aspetta. Io ormai sono in Italia, ma appena riuscirò tornerò qui”.



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