Balcani: prove di immaginazione

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E’ possibile costruire una narrazione condivisa dei Balcani come spazio di interazione e dialogo tra culture, superando le divergenze polemiche fra le storiografie nazionali? E’ la sfida della mostra itinerante “Immaginando i Balcani”, in questi giorni a Belgrado

di Federico Sicurella, da Belgrado, da Osservatorio Balcani Caucaso

Lo scorso 9 settembre è stata inaugurata a Belgrado la mostra “Immaginando i Balcani”, che racconta la formazione di identità e memorie delle comunità dell’Europa sud-orientale durante il diciannovesimo secolo. Il titolo della mostra suonerà familiare a chi si interessa della regione balcanica. E’ infatti tratto dal celebre libro in cui la studiosa bulgara Maria Todorova critica la tendenza della cultura occidentale a produrre rappresentazioni stereotipate e caricaturali dei Balcani (leggi la recensione di Osservatorio). Eppure la mostra, nella cui ideazione la stessa Todorova è stata coinvolta come consulente speciale, non è affatto una riproposizione pedissequa dei contenuti del libro. Piuttosto, essa si propone come tentativo di demistificare, o per lo meno correggere, l’immagine ‘ufficiale’ che le comunità balcaniche hanno di se stesse. E quindi di rilanciare l’idea dei Balcani come costrutto culturale aperto, ovvero soggetto a un incessante lavoro di ridefinizione.

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Coerentemente con questa visione, la mostra non è suddivisa in base ai paesi e alle nazioni partecipanti, ma si articola su una serie di unità tematiche comuni: la vita nel “vecchio mondo”, viaggi e comunicazioni, il nuovo ordine sociale e l’ascesa della classe media, produzione e diffusione del sapere, usi della storia e creazione degli eroi nazionali, festività pubbliche e rappresentazioni della nazione (qui un breve video della mostra).

Una sezione dell’esposizione è dedicata alla cultura del caffè come pratica comune a tutti i popoli balcanici. Inoltre, è possibile assistere alla proiezione di un corto di animazione sloveno, “Cicoria e caffè”, e del documentario bulgaro “Di chi è questa canzone?”. Come ricorda la curatrice Katarina Mitrović, lo spirito della mostra è quello di rappresentare la tensione permanente tra due modelli culturali: da un lato le culture tradizionali, la cui sopravvivenza è legata all’integrazione nelle nuove identità nazionali; dall’altro la tendenza al progresso e alla modernizzazione, che invece porta all’affermazioni di ideali civici e universali.

Alla realizzazione della mostra hanno collaborato ben dodici musei storici nazionali, in rappresentanza di undici paesi dell’Europa sud-orientale e della Germania, sotto il patrocinio dell’UNESCO. Come ricordano con orgoglio gli organizzatori e le organizzatrici della mostra, è la prima volta che queste istituzioni si cimentano nello sforzo di negoziare le storiografie nazionali ufficiali al fine di produrre una narrazione condivisa e coerente dei Balcani. E per questo vale la pena menzionarle tutte: Museo storico nazionale (Albania), Museo della Republika Srpska (Bosnia Erzegovina), Museo storico nazionale (Bulgaria), Museo storico croato (Croazia), Museo civico Leventis (Cipro), Museo storico tedesco (Germania), Museo storico nazionale (Grecia), Museo nazionale (Montenegro), Museo della storia nazionale (Romania), Museo storico (Serbia), Museo della Macedonia (Macedonia) e Museo nazionale (Slovenia).

Una storia complicata

I musei storici nazionali sono le fabbriche in cui si producono e si esibiscono le storie ufficiali dei singoli paesi, e costituiscono quindi organi fondamentali dell’apparato ideologico di ogni stato-nazione. Non può dunque sorprendere che il percorso di ideazione e realizzazione della mostra sia stato lungo e irto di ostacoli.

Ana Stolić, coordinatrice scientifica e curatrice della mostra per conto del Museo storico serbo, rivela i retroscena di questo faticoso processo in un incontro pubblico. Il primo passo, racconta Stolić, è avvenuto a Salonicco nel 2010, quando i rappresentanti di vari musei storici della regione balcanica si sono incontrati per discutere di memorie condivise. Il secondo passo ha avuto luogo a Berlino l’anno seguente, con un incontro dedicato al trattamento museale dei patrimoni storici conflittuali. La vera svolta è arrivata con l’incontro di Torino, sempre nel 2011, durante il quale si è raggiunto un accordo sulle aree tematiche e sul periodo storico oggetto della mostra, il “secolo lungo” (cioè il XIX secolo, nella definizione dello storico Eric Hobsbawm). Ci sono però voluti altri due incontri, a Lubiana e a Bucarest nel 2012, perché prendesse finalmente corpo un approccio condiviso, focalizzato non sulle storie ufficiali dei singoli paesi ma su ciò che accomuna le comunità balcaniche in termini di pratiche sociali ed esperienze culturali.

Nel corso delle negoziazioni non sono mancate diatribe tra i singoli paesi – quelle che Stolić chiama “piccanterie”. Nel corso del primo incontro è emersa l’annosa disputa tra Grecia e Macedonia in merito al nome di quest’ultima. Successivamente, Serbia e Bulgaria si sono contese l’appartenenza (etnica) di un certo eroe nazionale e la lingua in cui fu scritta la dichiarazione d’indipendenza dell’effimera Repubblica di Kruševo. Il caso più grave riguarda però la Turchia, la cui volontà di mettere l’accento sull’eredità ottomana ha suscitato la reazione irritata degli altri musei, a seguito della quale la Turchia ha deciso di ritirare la propria partecipazione. Infine, c’è da segnalare la “defezione” del Museo nazionale di Sarajevo, che nell’ottobre del 2012 è stato costretto a chiudere per mancanza di fondi . A fare le veci della Bosnia Erzegovina è stato il Museo storico della Republika Srpska, con sede a Banja Luka.

Compromessi

La realizzazione della mostra è stata vista da più parti come un successo di proporzioni storiche. All’inaugurazione di Belgrado si sono sprecate dichiarazioni roboanti, come quelle del vice-ministro della Cultura Slavica Trifunović, che ha parlato della mostra come di un evento senza precedenti non solo nel contesto balcanico ma nel mondo intero. Più moderate invece le parole delle curatrici Ana Stolić e Katarina Mitrović, che pur sottolineando l’importanza di questo primo tentativo di superamento delle ideologie nazionali, ne riconoscono apertamente i limiti. Stolić sottolinea come la cifra della mostra sia il compromesso, indispensabile quando ci si avventura su un “terreno scivoloso” come quello delle storiografie ufficiali. Mitrović, invece, descrive la mostra come incarnazione del “minimo comune denominatore” tra i paesi partecipanti.

È lecito chiedersi, a questo punto, che cosa abbia spinto delle istituzioni come i musei storici nazionali, di norma riluttanti a riflettere apertamente e criticamente sul proprio operato, a intraprendere questo percorso comune. La sensazione è che il patrocinio attivo dell’UNESCO, esercitato attraverso il suo Ufficio regionale per la scienza e la cultura in Europa (con sede a Venezia), sia stato determinante per il raggiungimento del compromesso. Ana Stolić ne dà conferma, riconoscendo il ruolo cruciale giocato dal rappresentante dell’UNESCO Anthony Krause nel “riconciliare” le divergenze dei vari musei, spingendosi fino alla revisione delle bozze dei testi esplicativi preparati dai curatori per la mostra. A questo proposito, la curatrice parla espressamente di una “politica culturale europea” che ha funzionato come paradigma normativo per la scelta dei contenuti da esporre.

È ironico e amaro constatare come la breve storia della mostra “Immaginando i Balcani” riproduca, in un certo senso, la situazione attuale della regione: un coacervo di narrazioni conflittuali, spesso cariche di retorica nazionalista, il cui superamento è affidato a uno sforzo di cooperazione, conciliazione e pacificazione che però è in gran parte eterodiretto, ovvero gestito da agenzie esterne (europee o internazionali).

Questa mostra, quindi, non può considerarsi un atto pionieristico. Lo sarebbe stato dieci o quindici anni fa, quando il processo di riconciliazione e di integrazione della regione balcanica nel sistema europeo era ancora agli inizi. Nel contesto attuale, il suo significato è un altro. Essa testimonia delle barriere strutturali che impediscono agli apparati ideologici statali (di cui i musei storici sono una colonna portante) non solo di farsi autonomamente promotori di narrazioni condivise, ma anche di confrontarsi criticamente, e in modo paritario, con le politiche culturali dominanti promosse dalle istituzioni europee e occidentali. In questo senso, oltre a raccontare dei Balcani del diciannovesimo secolo, la mostra rivela molto anche dei Balcani di oggi.



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