Ritorno in Senegal – 2^ puntata

Un senegalese, due amici italiani, a metà strada tra due caseil viaggio di J. dall’Italia al paese africanoun ritorno a casa atteso cinque anni. E raccontato tra sorpresa e speranza

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[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/09/Ilaria_Brusadelli.jpg[/author_image] [author_info]Ilaria Brusadelli, classe 1986. Ha la testa fra le nuvole ma i piedi per terra. Giornalista, perché è una buona scusa per conoscere il mondo e fare domande[/author_info] [/author]

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/09/Marco_Besana.jpg[/author_image] [author_info]Marco Besana, classe 1983. Gran sognatore. Gran viaggiatore. Giornalista perché è più facile raccontare gli altri che se stesso[/author_info] [/author]

Ilaria e Marco sono tra i fondatori dell’associazione ¡NO MÁS!

In bilico tra Italia e Senegal

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La prima tappa è Genova. La stessa città che J. ha conosciuto anni prima, quando vendeva collane sulle spiagge liguri.

Un viaggio di oltre 5.000 Km per raggiungere la sua famiglia che lo aspetta oltre il Mediterraneo, oltre l’Atlante, oltre il deserto. Nella traversata in traghetto, J. conosce un gruppo di senegalesi che, come lui, tornano nel Paese che hanno lasciato anni prima. Da Tangeri sono 6 le macchine che, insieme, partono alla volta del Senegal. Ne arriveranno solo 4: due macchine finiranno la loro corsa tra le montagne del Marocco e i 52 gradi del deserto.

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J. ha pensato a tutto da solo prima di partire, dai documenti per esportare la macchina ai profumi a basso costo per “pagare” i doganieri di Marocco e Mauritania e garantirsi un viaggio senza troppi inconvenienti.

Alle dogane ci sono sempre problemi” racconta J. , “Si risolvono  consegnando il passaporto con 5 – 10 euro all’interno. Il viaggio è difficile, in Mauritania, ai posti di blocco, la polizia copre la testa di chiunque si fermi con panni bagnati: il solo modo di sopportare il caldo del deserto durante i controlli, che possono durare ore. Sono stato fortunato, non ho avuto incidenti, solo un guasto al motore. Ho avuto un po’ di paura quando un poliziotto in Mauritania mi ha detto che non potevo entrare nel paese con delle bottiglie di vino. Gli ho detto che era solo succo, se ne voleva una bottiglia non c’era problema. Si è convinto con qualche banconota e mi ha lasciato andare. Una volta entrato in Senegal, però, ho sentito che ero a casa, ho sentito una gioia incredibile”.

In Senegal  J. non usa più il suo nome francese, così mal pronunciato in Italia. Come la maggior parte dei senegalesi, J. ha due nomi: uno francese e uno sérèr che significa “il più forte”. Ma a D. anche il suo nome, che usa con chi non conosce, lascia posto a un soprannome. Per tutti è Cojo. Secondo una leggenda, Cojo era un pastore particolarmente buono e generoso. Girava di villaggio in villaggio dando il latte delle sue bestie a chi non aveva da mangiare.

Ed è così che, anche questa volta, Cojo ha nel bagagliaio tutti i regali che deve portare alla famiglia.  Perché sì, come il pastore, J. è davvero generoso. Ma non solo, J. deve, perché non può esistere che chi vive e lavora in Italia, torni a casa a mani vuote. Ed è così che pur non ricevendo lo stipendio da più di due mesi, J. ha trovato il modo di comprare extention di capelli veri per A. la sua sorella più piccola. Ha comprato il cellulare al fratello e i vestiti per nipoti e cugini.

In Italia J. ha imparato l’importanza dell’orologio che, soprattutto nella laboriosa Brianza, governa le giornate. Nella sua valigia ha messo un po’ di orologi per gli amici: un accessorio di moda che tutti hanno al polso. Nessuno però con la pila.

Accontentare tutti, per J. che, quando viene pagato, guadagna 1.000 euro al mese, non è facile. Perciò capita che, mentre J sta guardando la partita di calcio del villaggio, un cugino gli chieda i soldi per andare a ballare la sera, o un nipote gli chieda in regalo il vestito che indossa. Forse anche per questo J. preferisce non parlare molto dell’Italia, della sua vita. Non come quegli emigrati che, in discoteca, parlano di proposito con uno spiccato accento parigino dicendo di essere solo turisti in Senegal.

Cosa devo dire, che sono ricco? Che vivo bene? Non è così.” dice J. “Infatti quando incontro un altro emigrato, con me cambia subito accento e modo di parlare. Sa che a un altro emigrato non può mentire. Ci sono tanti immigrati che, anche se potrebbero, non tornano a casa. Non puoi negare un regalo a un parente, e qui pensano che sono in Italia a fare la bella vita, che sono diventato ricco. Un mio cugino vive da 10 anni in Italia ma è clandestino, quindi non può tornare. La sua famiglia crede che non ritorni di proposito e sua mamma, a qualunque italiano che passa, chiede come sta il figlio mai più rivisto. Non è facile capire che non è una questione di tempo o di buona volontà ottenere un permesso di soggiorno. Io sono stato fortunato, mio cugino no. E vedere tornare me dopo “solo” cinque anni crea un po’ di invidia e gelosia”.

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D. per J. è e sarà sempre casa. Ma non è più come quando è partito. L’uso del pronome “noi” è cambiato. Lo usa con i Toubab, i “bianchi”, per indicare il suo popolo. “Noi viviamo in modo semplice, siamo poveri ma siamo accoglienti e crediamo profondamente nei legami con la nostra famiglia. Infatti in tutta l’Africa il Senegal è conosciuto per essere il Paese della Teranga che significa ospitalità”. Ma alcune cose di quel “noi”, J. non le sente più sue, e allora il “noi” serve anche per indicare lui e il popolo con cui ora vive. “Qui bevono un vino terribile. Noi in Italia abbiamo un vino molto più buono ma a mio padre non lo porto mai. Lui il nostro vino non lo beve”.

Così, anche se nella sua macchina ci sono delle buone bottiglie di prosecco, per andare a salutare suo padre, J. passa dall’unico negozio del villaggio dove, tra le bombole del gas, cipolle e sigarette, vendono anche il vino. Servirà per andare a rendere omaggio all’albero sacro del villaggio, dove chiunque sia partito deve tornare appena arrivato e prima di partire.

Suo padre è la guida spirituale del villaggio ed è il custode di quell’albero sacro. È lui a celebrare i riti. È lui che prepara i gri gri, amuleti che proteggono chi li indossa; lui l’unico guaritore riconosciuto in tutta la zona come capace di curare il morso del serpente.

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Anche J. – se dimostrerà di essere in grado di farlo – imparerà questa pratica, dopo che il testimone passerà ai fratelli del padre e, successivamente, ai figli maschi. “Credo in tutto questo” ci racconta mentre getta una manciata di sale grosso sulla strada per fermare la pioggia tropicale che continua da ore “Quando verrà il mio tempo, imparerò i segreti che la mia famiglia tramanda da secoli per tramandarli a mia volta”.

J. è  un miscuglio di modernità e tradizione, di vestiti alla moda e antiche credenze, costantemente in bilico tra magia e religione, tra cristianesimo – la fede della sua famiglia – e animismo.

In Africa non si può essere solo cristiani, solo musulmani. L’animismo è parte della nostra storia e non si possono rinnegare le proprie radici” ci racconta A., il fratellastro di J., cristiano e insegnante di filosofia a Touba «La Mecca» senegalese e città santa del Muridismo. Anche lui passa l’estate a D. e aiuta la famiglia nei campi. “La tradizione è come un bicchiere pieno d’acqua e la religione è come una mano in quel bicchiere. Un po’ d’acqua cadrà fuori, quella è la tradizione méchante (cattiva, ndr) che non bisogna seguire. Il resto è giusto custodirlo”.

È difficile pensare che cristianesimo, animismo e filosofia possano coesistere serenamente. “Come diceva il filosofo Pascal” continua A. mentre stappa l’ennesima bottiglia di Gazelle, la più famosa birra senegalese, “è meglio credere anche se non esiste nulla rispetto alla possibilità di non credere se esiste qualcosa. È semplice, come la vita. È l’uomo, invece, che è complicato”.

Anche le lingue sono ormai fuse in una sorta di esperanto personale, in J., che parla il wolof  “imparato sulla strada”, il sérèr  insegnato dalla famiglia”, il francese “studiato a scuola”.

E l’italiano, il suo nuovo codice, quello che, tornato in Senegal, emerge di colpo in un’esclamazione, in una battuta, in una richiesta improvvisa e spontanea che nessuno, al di fuori di lui, può comprendere.

In bilico tra culture, tra lingue, tra “case”. Tra il gusto dell’ormai “suo” caffè italiano e quello del ceebu jen, che “suo” lo è da sempre.



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