Peperoni: Esseri umani

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Sono passati almeno 10 anni dallʼuscita di ognuno dei film che rivisiteremo in questo spazio, eppure, nel bene o nel male, nulla pare essere cambiato. Pare che le tematiche siano più attuali del previsto. Dunque, si ripropongono, proprio come i peperoni. Speriamo solo di digerirli il prima possibile[/note]

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/07/Schermata-2013-07-12-alle-14.20.02.png[/author_image] [author_info]Alice Bellini. Dovendo rinunciare alla sua aspirazione Jedi per cause di Forza maggiore, si laurea in cinematografia tra Londra e New York, con la speranza di potersi definire quanto prima una scrittrice. Già redattrice di cinema per altre testate online indipendenti, non è una critica di nulla, ma le piace dire la sua, sapendo che, comunque, la risposta a tutto è inevitabilmente 42.[/author_info] [/author]

Quando devo decidere se una persona mi piace o meno, se farla entrare nella mia vita e condividerci momenti importanti, oppure renderla una semplice e limitata conoscenza, non mi baso sul colore dei suoi capelli, o su quello degli occhi, o su qualsiasi altro aspetto esteriore. Non m’interessa se da bionda è diventata mora, o se preferisce indossare scarpe col tacco a spillo piuttosto che pantofole da casa. È totalmente irrilevante. Quello che mi chiedo è, piuttosto, se condivide i miei ideali e la mia etica, se gli piacciono le stesse cose che piacciono a me, fatte nello stesso modo, o se, al contrario, può insegnarmi qualcosa di nuovo e magari anche utile. Mi chiedo se potrei passarci ore a parlare senza mai annoiarmi. Mi chiedo se è una persona di cui posso fidarmi. Mi chiedo se è una persona capace di amare – non solo in senso romantico.

Insomma, quello che sto cercando di dire è che sono profondamente convinta che quello che determina una persona non è ciò che quella persona è materialmente, ma ciò che a quella persona piace e ciò in cui quella persona crede. È ovvio, e anche a volte utile, avere una prima impressione sulle cose. Ce l’abbiamo tutti, è nel nostro istinto di sopravvivenza. Può anche essere divertente, volendo, se poi uno ha l’autoironia necessaria a ricredersi e ridere della stupidità del proprio preconcetto. Diventa però deleterio quando è determinante.

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E non parlo solo di preconcetti legati a come uno si veste, o si muove, o qualsiasi altro aspetto “estetico”. Parlo anche e soprattutto dell’impressione più prima che abbiamo di una persona: il sesso. È maschio. È femmina. E tale definizione dovrebbe, teoricamente e automaticamente, definire più o meno tutto il resto, ovvero definire cosa sia dentro e fuori la norma riguardo l’individuo in questione.

Ma, a rivisitare uno dei detti più sacrosanti della storia dell’umanità, non è maschio chi è maschio (o femmina, ben s’intende), ma è maschio chi ci si sente.

Credo che non ci sia nulla di male ad avere delle aspettative da una determinata cosa, come, ad esempio, il sesso di una persona, anche e soprattutto il proprio. Ma pensare che quelle aspettative si rivelino come vere e, soprattutto, “giuste” e “normali” è tutto un altro paio di maniche, alquanto pretenziose, per altro.

Come al solito, è “giusto” e “normale” ciò che esiste senza limitare la libertà altrui o compiere atti di violenza. Le deformazioni non esistono, esistono solo più tipi di realtà. Alcune possono essere più diffuse di altre, ma non per questo le uniche a godere dell’aggettivo “normale”. E con questo non sto dicendo che siamo tutti uguali, anzi, ben vengano le differenze. Di sicuro, però, siamo tutti normali.

A partire da Novembre, la Germania includerà nelle tabelle natali la possibilità di usufruire di uno spazio bianco, come una zona franca, lasciando indeterminato il sesso del neonato. Questo spazio bianco, però, è utilizzabile solo qualora, biologicamente parlando, il nascituro non può essere definito né completamente maschio, né completamente femmina.

È sicuramente un primo passo nei confronti dell’integrazione delle persone intersex e transgender. E ben venga che sia avvenuto, piuttosto che non. Ma non ci trovo comunque nulla da esultare, perché la delibera suona più come un contentino per tenere buone le persone, piuttosto che un vero traguardo. Un po’ come la legge “contro” l’omofobia che è stata varata in Italia. Suonano entrambe come un “facciamo che è legale, ma fino a un certo punto”. Insomma, ampliare il perimetro del recinto non rende l’animale libero, ma solo illuso.

Sappiamo benissimo, infatti, che ci sono moltissime persone che, nonostante nascano biologicamente maschi o femmine, si sentano spiritualmente e istintivamente appartenenti al sesso opposto. E non penso che abbiano meno diritto di scegliere a che sesso appartenere di chi è nato “biologicamente intersex”. Credo infatti che sia abbastanza chiaro a tutti che oggi la questione del sesso d’appartenenza è una mera formalità, che lascia aperte le porte a migliaia di differenti modi di vivere non solo il proprio sesso, ma anche la propria sessualità.

A tale proposito, nel 2005 (e mi perdonerete se questa volta gli anni sono 9 invece che 10) uscì uno dei film più belli e poetici in merito alla questione. Un’indimenticabile Felicity Huffman, diretta da Duncan Tucker e affiancata da un altrettanto impeccabile Kevin Zegers, ha indossato in Transamerica i panni di Bree, una donna trans che, a pochi giorni dall’operazione definitiva, si scopre padre di un figlio che non sapeva neanche lei di avere. E il discorso, a quel punto, è elementare. Padre o madre, donna o uomo che sia, non saranno queste specifiche a renderla più o meno in grado di amare, di soffrire, o di prendersi cura di un figlio. L’unica cosa che importa è l’onestà e capire veramente chi si è e a cosa s’appartiene. Per scelta e non per imposizione. Perché questa è l’unica vera via che ci consentirà di amare noi stessi e, consequenzialmente, gli altri. Il sesso d’appartenenza non c’entra assolutamente nulla. Uno potrebbe non avercelo nemmeno, un sesso d’appartenenza. Amerebbe lo stesso.

“Il sesso ci rende maschi o femmine, o entrambe le cose”, è quello che recita la tagline di un film ben più recente (2007), ma infinitamente poetico e assolutamente da vedere. XXY, firmato Lucìa Puenzo, in cui una giovanissima e magistrale Inés Efron interpreta Alex, una quindicenne intersex in procinto di dover prendere una decisione definitiva riguardo al suo sesso. Dover, sì, perché è la società che lo impone. Perché pare che non possa essere altrimenti. Il finale del film è perfetto. Proprio come Alex.

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Così, nello stesso modo in cui spero che un giorno le discriminazioni siano considerate tali indipendentemente dalla bocca che le pronuncia e siano tutte etichettate come violente e ingiuste, spero anche che lo spazio bianco sia concesso a tutti. Uno spazio privo di qualsiasi tipo di aggettivazione. Uno spazio in cui si può scegliere cosa e come essere, senza che nessuno c’imponga nulla, o ci contraddica, oppure, peggio ancora, ci neghi la possibilità di farlo. Uno spazio bianco dover poter scrivere liberamente e senza vergogna quello che si è. O non scriverlo affatto, se si preferisce. Lasciarlo vuoto. La vita, dopotutto, è molto di più che un accumulo di aggettivi. L’importante non è essere uomo o donna. L’importante è essere umani.



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