Storia di Xia Junfeng

Una condanna a morte scatena la Rete cinese. Non è in questione la pena capitale, ma l’ingiustizia insita nel principio dei “due pesi, due misure”. Diritto umano è la benevolenza confuciana. E la democrazia è un utensile scassato

Gabriele Battaglia, da Pechino

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30 settembre 2013 – Xia Junfeng era un venditore ambulante di carne alla griglia, un poveretto, uno di quegli invisibili che fanno della Cina il posto al mondo dove è forse più facile trovare cibo buono a ogni ora del giorno e della notte, ovunque, a prezzo irrisorio. Non aveva la licenza.
Nel maggio del 2009, nella città nord-orientale di Shenyang, due “chengguan” – i poliziotti municipali che nella classifica dell’odiosità sono in genere piazzati da qualsiasi cinese al primo posto assoluto – gli hanno sequestrato merce e carretto, l’hanno portato al commissariato e si sono appartati con lui in una stanza per “interrogarlo”.
Qualche minuto più tardi i due poliziotti erano morti, accoltellati da Xia che, evidentemente, non era stato perquisito bene. L’uomo ha sempre sostenuto che fosse stato picchiato selvaggiamente.

Mercoledì scorso, Xia Junfeng è stato giustiziato con il metodo “dolce” dell’iniezione letale (una delle poche tecnologie innovative che finora la Cina è riuscita a importare dagli Usa), perché anche da queste parti la pallottola nella nuca è stata dismessa. Aveva 37 anni, lascia una moglie – che nel corso degli anni si è trasformata in un’attivista per la causa di suo marito attraverso il proprio microblog – e un figlio 13enne, che è diventato una specie di celebrità “virale”, grazie ai disegni sulla vicenda del padre.

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La Rete cinese si è immediatamente riempita di indignazione e rabbia per la sorte dell’uomo che in quattro anni di processi, appelli e controappelli, era diventato un simbolo e perfino un eroe per la grande massa dei cinesi esasperati da soprusi, ingiustizia e diseguaglianza. Sul social network Weibo, il nome di Xia Junfeng è stato il più cercato; sono stati postati circa 2,8 milioni di messaggi che riguardavano la sua vicenda.

Perché – si chiedevano in molti – il povero venditore ambulante è stato giustiziato mentre Gu Kailai l’ha scampata? Perché lei è una potente e lui no, è stata la risposta unanime.
Gu è la moglie di Bo Xilai – l’ex pezzo grosso del Politburo caduto in disgrazia e recentemente condannato all’ergastolo – che l’anno scorso è stata riconosciuta colpevole dell’omicidio premeditato del cittadino britannico Neil Heywood e condannata alla “pena di morte sospesa”: un’istituzione tutta cinese che di fatto significa l’ergastolo.

Un’amica di Pechino mi ha detto che ieri, appresa la notizia, è piombata in uno stato di tristezza infinita.
“Mi ha ferito soprattutto il fatto che non gli abbiano permesso di lasciare una propria foto alla famiglia. Questo significa che in questo Paese non ci sono i diritti umani (renquan, in cinese)”, ha detto la mia amica.

Incuriosito, le ho chiesto se quello della fotografia non fosse tutto sommato un problema secondario, al massimo di “carità”: termine che in cinese si dice renai e che sarebbe meglio tradurre “benevolenza” o “amore dell’uomo”, giusto per togliergli quel sapore da virtù teologale cristiana che qui non esiste. Le ho anche detto che i “diritti umani” riguardano, se mai, la pena di morte in sé.

La sua risposta è stata interessante: “Per voi stranieri (leggi “occidentali”) la pena di morte è un problema di diritti umani; per noi c’è e basta”. Il diritto umano negato si trasferisce dalla pena capitale in sé al fatto che a Xia non sia stato dato modo di ricostituire un ultimo legame simbolico con la propria famiglia. Quanto Confucio, c’è in tutto ciò.
E poi certo, “io non avrei voluto che fosse giustiziato”, dice lei. Ma non perché sia sbagliato in sé (la pena di morte infatti “c’è”, punto), bensì perché lui è la vittima, non il colpevole.

La mia amica ritiene che la maggior parte dei cinesi voglia la pena di morte e io sono dello stesso parere. Questo è un grosso problema quando gli occidentali vanno a far loro le pulci: “Voi non siete democratici – si ripete a ogni piè sospinto – ma sulla pena di morte no, lì non dovete esserlo, fregatevene di quello che pensa la gente. Abolitela e basta”.
Il che non fa che avvalorare la tesi cinese per cui la democrazia è un utensile che non funziona troppo bene e il cui libretto di istruzioni è anche piuttosto incomprensibile.

Ma la pena di morte “usata male”, come nel caso di Xia Junfeng, non fa che allontanare il potere dalla gente comune, così come tutte manifestazioni di ingiustizia e diseguaglianza che costellano la vita quotidiana dei cinesi. Ed è questo che il Partito teme.



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