12. Il quarto lato (parte ultima)

Massimiliano Hütschenreuther ha quarantatré anni. Suo figlio Giacomo, otto.
Uno dei due fa il cameriere in una pizzeria, l’altro la terza elementare.
Abitano a sei chilometri di distanza, in due quartieri opposti della stessa città.
Questa è la storia di come stanno diventando grandi insieme, un giovedì dopo l’altro.

Di Enrico Sibilla

“Il Giovedì” è un’opera di finzione letteraria: qualsiasi riferimento a persone ed eventi realmente esistenti è da considerarsi un’incredibile sfortunata coincidenza.

 
Il quarto lato (parte ultima)
 

“Giacomo, mio.

Mi sforzo di immaginarti e riesco solo a vederti come sei oggi ma esploso in altezza, lo stesso volto piccolo sul tuo piccolo corpo che ho solo allungato nelle proporzioni. Non c’è stata metamorfosi in quello che immagino: sei tu, non cresciuto ma semplicemente ingrandito, conservato identico in tutto, soprattutto nella quiete bionda e innocente.

Ti scrivo e hai otto anni, ma quanti ne hai mentre mi leggi? Per quanto tempo questa lettera ha riposato prima che tu -oggi- la aprissi? E, intanto, cosa sei diventato? Un adolescente, già un giovane adulto? E come stai, sei sano? Sei felice? Mi assomigli? Ci sono ancora, io?

Ti scrivo da un computer, su cui digito un tasto alla volta, con la mano sinistra. La destra è ancora ingessata, per la seconda volta in due mesi, nella speranza che almeno riassuma una forma simile a quella normale. Per quanto riguarda le funzioni mi hanno detto di non farmi illusioni: l’hanno salvata ma è compromessa, non potrò usarla mai più.

Io non so cosa sia successo nel tempo che ci separa. Probabile che tu sia cresciuto abituandoti a questa mia mano inerte pendente come lo è un bargiglio di un gallo, un’appendice di cui adesso non so ancora immaginare la forma il colore l’effetto ma che tu nel frattempo avrai imparato a ignorare, forse per rispetto, più probabilmente per pena. Chissà se ti sarai vergognato di me all’uscita da scuola, chissà quante lingue ti avranno ferito chiedendoti una spiegazione.

Tu, io lo so, avrai sempre risposto con una menzogna, perché una menzogna è ciò che ti avremo raccontato. Un incidente sul lavoro, forse. O una malattia. Il morso di un cane. Ci saremo sentiti tranquilli nel gettarti una spiegazione come si lancia un pezzo di carne a una bestia feroce; avremo contato sulla tua innocenza sulla tua fiducia sulla tua impossibilità di capire. E invece chissà quali scene quali variazioni quali orrori avrai costruito nella tua testa per figurarti il Momento. Quante notti insonni, quanti sguardi fissi sul muro. Dimmi, Giacomo, quali paure hai dovuto affrontare, da solo? E quale immagine hai scelto alla fine come La Scena, sufficiente e definitiva? Hai trovato la pace, finalmente, a quel punto?

Ti scrivo per frantumarla, la pace, Giacomo mio. E lo faccio sapendo che il calvario che avrai attraversato in queste ore io sto per vagliarlo sceglierlo pianificarlo. È mostruoso pensare che sarei ancora in tempo per evitartelo, raccontando una verità che mi gonfierebbe di vergogna e di piccolezza, ma non sono uomo abbastanza per pagarne il prezzo. Perché, vedi, con quella verità quasi sicuramente ti perderei. Calerebbe un tempo buio di incomprensioni di nuovi litigi di altri avvocati. E io tutto questo non posso reggerlo, adesso. Per questo sceglierò di gettarti nell’angoscia, ma mi dirò che è per il tuo bene.

Sono davvero un uomo minuscolo: io: quello che chiami tuo padre.

Due mesi fa quando tutto è successo, a caldo, alla mamma ho raccontato di essermi ferito spostando un armadio, ed è stata la miccia di una catena di menzogne, lunga di aggiustamenti e omissioni. L’idea, patetica e zoppa, di un armadio che cade è stata la prima a salirmi alla coscienza quando riaprendo gli occhi vi ho trovati ai piedi del letto. Nel bianco sedato dell’ospedale mi è sembrata la cosa giusta da dire. Un armadio che cade e frantuma una mano, una così piccola cosa davvero. Ma le lastre e i dottori suggeriscono altro, ammiccano clinici alla verità, e tua madre quella verità deve averla intuita. Deve avere capito che non esistono armadi e che la mia mano è stata l’epicentro di una violenza fenomenale; le mancano i particolari e non vede alcune porzioni del quadro, ma sa. Eppure, poiché forse ha riconosciuto il seme che ha innescato quella violenza, un seme che sospetta essere lei stessa, ha scelto di accettare la mia debole versione. Mentre ti scrivo non so ancora se ne parleremo, se questo è ciò che racconteremo anche a te, se anche per te sarà stato solo un armadio che cade.

È che siamo esseri dal cuore miserabile e vuoto.

Se c’è una cosa che vorrei nasconderti, ma che mio malgrado crescendo scoprirai con immenso dolore, è che un padre non è niente più che una persona, e che questo è difficile perdonarglielo. Non l’ho fatto io con il mio -un uomo il cui esoscheletro è impossibile da penetrare e da cui non filtra nemmeno una bava di luce- e non lo farai tu con me. Ogni giorno incrociamo centinaia di uomini, e li giudichiamo per i loro momenti di piccolezza. Molti di noi esseri umani mal fatti sono anche dei padri. E voi ci siete figli. Se saremo stati un po’ bravi, da grandi sarete soltanto un millesimo migliori di noi.

È che siamo esseri dal cuore miserabile e vuoto, e l’amore che siam sempre pronti a urlare difendere certificare, se esiste, non basta. Il sentimento è solo la base, imprescindibile certo, e forte talvolta, ma se vogliamo scrivere una regola facile da mantenere quando l’amore -perso o ritrovato- ci annebbierà la vista, sopra dobbiamo stenderci giustezza e quiete.

Non di solo amore vive l’amore: di giovani Werther son piene le fosse.

Perché, vedi, il mio imperdonabile errore non è stato macinarmi una mano tempestando una parete di pugni. Perché è questo ciò che è successo, ora finalmente l’ho scritto, lo sai. No, il mio errore è stato avere una visione emotiva corta e limitata, è stato non avere il fegato di accettare che potesse esserci un quarto lato nel nostro triangolo.

Perché -lo capisco adesso che l’immobilità mi costringe a pensare- è folle pretendere che le famiglie siano oggetti semplici; ci crediamo il baricentro perfetto della nostra vita dentro il nostro tempo, e invece siamo al perimetro di una forma che muta. Le nostre storie nascono come triangoli, ma diventano quadrati, pentagoni, a volte tornano di nuovo triangoli per poi diluirsi in esagoni tetradecagoni pentacontagoni. Tutti abbiamo lati potenzialmente infiniti, e a volte qualcuno ritorna a essere solo una retta spezzata.

Se tutto ciò accade è perché in realtà siamo solo i bordi in perenne replicazione di frattali che si espandono nel tempo e dentro la storia; come fiumi che esondano geometrici nelle pianure generando rigagnoli che diventano fiumi che esondano geometrici nelle pianure generando rigagnoli che diventano fiumi che esondano geometrici nelle pianure.

Il quarto lato del nostro triangolo diventato quadrato si chiama Stefano, adesso lo so. Forse, se saremo stati tutti fortunati, ora che sei grande quel nome lo conosci bene e ti è familiare, appartiene alla tua nostra famiglia è acqua del nostro fiume che si fa largo nel mondo. Chissà.

Lo confesso: io Stefano l’ho subito odiato, e ho desiderato per lui il dolore la sofferenza e persino la morte. Tutto ciò non mi fa il minimo onore: leggere tutti i libri che ho letto non mi ha reso migliore. Né mi ha aiutato il mio vaneggiare sulla presenza la persistenza l’affetto, evaporati al primo sobbalzo. È successo che ho scoperto che lui esiste, che tu lo conosci, che trascorre del tempo con te, probabilmente più tempo di me. È successo che quel dolore mi ha reso pazzo. È successo che mi sono macellato una mano per evitarci una tragedia peggiore: per non ucciderlo, per non ammazzarmi.

Ciò che rimane di quel momento di discesa all’inferno è una mano che ora è ingessata ma che è destinata a penzolare senza stringere e toccare mai più: rimane una mano di cui mi vergogno e di cui forse ti vergogni anche tu.

Ne è valsa la pena? La domanda è retorica e la risposta la sai.

Chiedimi piuttosto come si rimedia a un errore così grossolano. Ti rispondo che non si può, che puoi solo vivere il resto dei tuoi giorni spingendo tutto il bene che hai sul tuo piatto della bilancia sperando che sia un contrappeso adeguato. Puoi barare, persino, ché tanto il bene non conosce morale.

Per me il risultato di quell’equilibrio, se un equilibrio avrò mai raggiunto, sei tu.

Ora stamperò questa lettera e la infilerò in un busta, che metterò nella scatola che uso per conservare i tuoi disegni e altri piccoli oggetti. Una volta piena, sigillerò quella scatola e ne preparerò un’altra, per i prossimi ricordi da custodire. Voglio dimenticarmi che questa lettera esiste. E un giorno, un giorno che non so prevedere ma che per te alla fine è arrivato ed è oggi, rovistando tra oggetti e fogli che non immaginavi nemmeno, sorridendo per il chiarore della tua infanzia, la troverai.

Quando l’avrai letta e sarai arrivato fin qui, fai di essa e di me quello che credi. Ma non perdonarmi, Giacomo, perché davvero non è quella la cosa importante:

cerca soltanto, se riesci, di essere un millesimo migliore di me.

Papà”

 

E poi è stato bellissimo vedere quella lettera bruciare,
rimediare all’errore un attimo prima di farlo.

 

 

broccoli

 

 

 

 

 



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