Peperoni: Cargo de vie

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Sono passati almeno 10 anni dall’uscita di ognuno dei film che rivisiteremo in questo spazio, eppure, nel bene o nel male, nulla pare essere cambiato. Pare che le tematiche siano più attuali del previsto. Dunque, si ripropongono, proprio come i peperoni. Speriamo solo di digerirli il prima possibile[/note]

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/07/Schermata-2013-07-12-alle-14.20.02.png[/author_image] [author_info]Alice Bellini. Scrittrice, si laurea in cinematografia tra Londra e New York. Non è una critica di nulla, ma le piace dire la sua, sapendo che, comunque, la risposta a tutto è inevitabilmente 42.[/author_info] [/author]

“Dio esiste, Dio non esiste, che importanza ha? Vi siete mai chiesti se l’uomo esiste?”

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16 ottobre 2013 – Mi sono ritrovata spesso a ragionare su questa storia dei confini, delle frontiere, delle Nazioni. Del fatto che teoricamente esistono linee che spezzettano il Mondo in tanti lembi di terra, alcuni più grandi, altri più piccoli, ma tutti fondamentalmente terra. Sono linee strane. Non esistono, eppure sono le più potenti del pianeta. E se le valichi senza permesso rischi di morire, o di non esistere più, senza manco il diritto di avere non dico un nome, ma almeno una dignità. Passi quella linea e non sei più un uomo. Eppure è strano, perché quelle linee le hanno tracciate gli uomini, proprio come hanno fatto con il Dio di cui Shlomo parla.

Uno non è clandestino perché lo è, è clandestino perché viene reso tale. Come a voler coprire la verità con un telo nero e spesso, così da poterla nascondere ai propri occhi. Ma se quel velo si toglie, ciò che rimane è un uomo. E basta. E allora non ci sarebbero più scuse e bisognerebbe ammettere che la terra “potrebbe essere santa ovunque, basterebbe volerlo, almeno non sarebbe più lontana”. La nonnina di Train de vie non poteva dirlo con parole migliori. Mettete al posto di “santa” quello che vi pare: “pacifica”, “giusta”, “salva”, “libera”. Il concetto non cambia.

Tain de vie è una pellicola datata 1998 e firmata magistralmente da Radu Mihăileanu. È un film bellissimo, dolceamaro, con il riso sulla bocca e il nodo alla gola. È un film commovente, senza mai diventare triste. Gela il sangue, ma scalda il cuore. E non riesco mai a decidermi se parli di speranza, o di follia. È la storia di uno shtetl, un villaggio ebraico dell’Europa dell’Est, che per rifuggire la deportazione Nazista costruisce e scappa su un finto treno di deportati, con tanto di finti Nazisti, alla volta del confine russo. La storia è davvero qualcosa. Come finisce potete immaginarlo. O forse no.

A chi viene l’idea di tutta la messa in scena del treno è un matto, Shlomo, lo scemo del villaggio. E allora dev’essere follia. Davvero? No, è speranza.

La stessa speranza che poi è morta più di 300 volte il 3 ottobre a largo di Lampedusa. La stessa che negli ultimi vent’anni è morta più di ventimila volte, però servivano quei 300 per far aprire gli occhi al Mondo. Senza contare tutte quelle speranze che sono morte prima ancora di partire, sotto le bombe, per la povertà, o la detenzione. E quelle che sono morte dopo, quando sono state riportate nei loro Paesi d’origine e sono state torturate e rinchiuse, non più per il reato di clandestinità, ma per quello di dissidenza e opposizione.

Ogni speranza è un’anima. Ogni anima, un uomo. Uomini che non smetteranno mai di arrivare, come lo shtetl di train di vie non avrebbe mai rinunciato a partire. Uomini che non hanno scelto dove nascere, che passaporto avere in tasca, o a che nazionalità appartenere. Uomini che non hanno scelto la guerra che li ammazza ogni giorno, le dittature, le repressioni, la tortura. E che per questo, per poter scegliere, almeno provarci, preferiscono scappare su inferni galleggianti alla volta dell’ignoto, piuttosto che morire senza alternativa.

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Chiudere i confini. Cosa significa? Se già i confini materialmente non esistono, “chiuderli” che vuol dire? Renderli materiali? Alzare muri invalicabili? Barricarsi dentro, o sbarrare fuori con cancelli che arrivano fino al cielo? Alzare recinti di lastre d’acciaio inossidabile che separino tutto e tutti?

Chiudere i confini non ha senso a dirlo, figuriamoci a farlo.

Quello che forse vogliono fare, allora, non è chiudere i confini, bensì chiudere le menti, o gli occhi. Chiudere la coscienza, soffocarla. Ammazzare le persone (sì, ammazzare, perché la morte di 300 persone costrette a viaggiare clandestinamente per salvarsi è un crimine, non un incidente, o una tragedia), arricchire gli scafisti, rinchiudere dei fantomatici clandestini in delle carceri mascherate da centro d’accoglienza. Magari riempirli di botte. Sicuramente renderli dei criminali, perché hanno commesso un reato imperdonabile, quello di essere nati nel posto dove sono nati. Possibilmente rispedirli al lembo di terra da cui sono arrivati, affinché a massacrarli ci pensi qualcun altro.

Il nostro immaginario lembo di terra ci ha reso abbastanza fortunati da avere una scelta. Noi non dobbiamo scappare da nulla, per cui abbiamo la possibilità di accogliere. Noi, come tutti gli altri lembi di terra intorno a noi che sono come noi. Possiamo accogliere uomini che non smetteranno mai di arrivare, perché nessuno di loro smetterà mai di volere una vita migliore, ma che noi almeno possiamo far smettere di morire.

I confini li abbiamo tracciati noi, non stanno lì da sempre. È paradossale che ora non sappiamo gestirli. Le nazionalità ce le siamo spartite come fossero diamanti preziosi, orgogli. Non contenti, le abbiamo imposte anche a terre che non ci appartenevano e che ora si stanno dissanguando a causa nostra, che invece continuiamo, come se non bastasse, a fare le vittime di questa loro invasione. E allora che orgoglio c’è ad essere carnefici che non sanno amministrare ciò che loro stessi hanno creato?

E quelli che arrivano continuano ad essere “Libanesi”, “Eritrei”, “Siriani”, “Egiziani” e chi più ne ha più ne metta, ma mai “uomini”. Stiamo tutti a guardare il confine, il bordo, la linea di demarcazione che noi stessi abbiamo tracciato, ma nessuno che osserva quello che c’è “oltre”, nessuno che alza gli occhi e si accorge che da ambo i lati ci sono solo degli uomini. E una cosa creata dall’uomo non può diventare più importante dell’uomo stesso. È follia.

Ma allora sì, forse è follia e non speranza. La follia di poter sperare. La follia che all’arrivo ci sia qualcosa di migliore che le bestie da cui si è scappati. La follia di scoprire che, invece, tutto il Mondo è ironicamente paese, ma solo alcuni sono clandestini. Follia di poter avere una scelta. Follia di poter essere uomini.

Ve l’avevo detto che non riesco mai a decidermi.

E a tutti quegli uomini e donne e bambini che sono morti nel limbo della migrazione il 3 ottobre e a tutti quelli morti i giorni a precedere. A tutti quelli che hanno tracciato confini e lasciano che essi prendano il sopravvento sulla loro umanità. A tutti quelli che un tempo, a loro volta, hanno sperato e migrato verso altri lembi di terra, ma che ora ripudiano chi ha bisogno di aiuto. A tutti quelli che parlano di globalizzazione, internet, cosmopolitismo, internazionalità e poi non riescono a far oltrepassare una linea inventata. A tutti quelli che chiamano le morti dei dei migranti delle tragedie, invece che dei crimini. A tutti gli uomini che una scelta ce l’hanno e a quelli che lottano fino all’ultimo per averne una. A tutti, insomma, dedico le parole più poetiche che il cinema abbia mai pronunciato. Perché, più che confini, ci serve umanità.

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