Ferite di parole

La psicologa Ivana Trevisani racconta il ruolo delle donne nelle rivolte arabe. Dove nessuno potrà rinchiuderle in casa

di Christian Elia

30 ottobre 2013 – “Il progetto nasce dalla consapevolezza mia e di Laila di come mancasse un’informazione per raccontare il ruolo delle donne in tutto quello che è accaduto in questi anni in una parte importante del mondo. Una visione completa, perché le donne non sono apparse dal nulla nel 2011: c’erano prima, durante e continuano ad esserci. Sono ancora là, in piazza, estremamente attive. E andando in giro a presentare il libro restiamo basite da quanto poco sia conosciuto questo ruolo”.

La dottoressa Ivana Trevisani, psicologa psicoterapeuta con formazione e perfezionamento in antropologia, presenta così Ferite di parole. Le donne arabe in rivoluzione, ed. Poiesis, scritto a quattro mani con la giornalista tunisina Leila Ben-Saleh. Libro che verrà presentato oggi, a Milano, presso la Casa per la Pace, in via Marco D’Agrate 11, con la dottoressa Trevisani, Monica Macchi, esperta di mondo arabo e Giuseppe Goffredo, scrittore e direttore della casa editrice Poiesis.

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L’autrice ha operato per progetti psico-sociali in Palestina, Vietnam, Rwanda, Kosovo e Iraq. Oltre ad articoli in varie riviste specialistiche, ha scritto tra gli altri i libri Lo sguardo oltre le mille colline. Testimonianze dal genocidio in Rwanda (2004), per Baldini Castoldi Dalai Editore, e Il velo e lo specchio. Pratiche di bellezza come forma di resistenza agli integralismi.

Ferite di parole racconta un mondo. Quello delle voci, femminile plural, dalla Tunisia all’Egitto, dalla Libia alla Siria, dal Bahreim allo Yemen. Restituendo un mosaic complesso, attraverso le storie singole e collettive, dello straordinario e coraggioso protagonismo delle donne nelle rivoluzioni arabe. Associazioni, testimoni, bloggers, giornaliste che si stanno battendo a favore dei diritti e della libertà. Per una lotta che va ben oltre il velo.

“La questione del velo è così complessa che non si può liquidare a un pezzo di stoffa. Certo, in presenza di un’imposizione, si deve reagire come di fronte a qualsiasi costringimento, ma la scelta del velo è così personale, così variegata all’interno del mondo islamico, che davvero non è accettabile una semplificazione del tema”, spiega la dottoressa Trevisani. “Conosco uomini che non condividono la scelta delle mogli o delle figlie di indossare il velo o perfino il niqab, ma lo accettano. E’ una questione che impone il confronto, l’ascolto e la capacità di non guardare sempre tutto con i nostri occhi. Ed è questo l’obiettivo del libro: restare ai margini, lasciare alle protagoniste lo sguardo”.

Un obiettivo raggiunto, fin dalla scelta di lavorare assieme a una giornalista tunisina, in un incontro di strade differenti. “C’è stata perfetta sintonia, sul tema e sui contenuti, addirittura sulla forma, in una sintesi tra la sua scrittura giornalistica e la mia che giornalistica non è. Mi ha lasciato tanto spazio e il libro nasce da un confronto”.

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Il rischio, dopo quasi tre anni di sommovimenti, è che resti un amaro bilancio di quelle che venivano chiamate rivolte arabe. Oltre la politica, però, le energie in movimento dal 2011, sono davvero esaurite? “Assolutamente no. Dal punto di vista delle donne, per esempio, resta un dato certo: in casa non le riporti più”, riposnde l’autrice. “Alcuni esempi. Il 13 agosto 2012, si sono tenute manifestazioni oceaniche in Tunisia, per difendersi dai cambiamenti costituzionali che avrebbero avuto importanti riflessi sulla loro vita, puntando alla donna come ‘complementare’ all’uomo. E continuano sit-in permanenti davanti al parlamento tunisino, dove tra tre settimane il governo guidato da Ennadha si dimetterà, conscio di non aver più quell grande appoggio popolare del quale ha goduto dopo la caduta di Ben Alì, nonostante le elezioni, altro elemento che tendiamo a guardare solo con i nostri parametri. Anche le donne egiziane si sono mobilitate, coinvolgendo, con il web, la comunità internazionale. Stessa iniziativa, alla fine di agosto, ad Hammamet, in Tunisia, dove anche i turisti si sono uniti a una grande catena umana sulla spiaggia. Sono segnali importanti, indietro non si torna. Un ritorno al passato non ci sarà, né in Egitto né in Tunisia. Nessuno ricaccerà in casa queste donne, che mettono in gioco una forza straordiaria, ed è questa la grande differenza con il passato. La mobilitazione, l’impegno, ha lasciato la sfera privata, lo spazio chiuso, per prendersi lo spazio pubblico. Questo non finirà, anche se i media occidentali non lo raccontano”.

Resta la crisi dei movimenti islamisti. Che non è solo maschile, perché per troppo volte si tende a domenticare che questi partiti contano sul contributo di tante donne, anche a livello dirigenziale. Arrivando al punto che si era parlato di un femminismo islamico. “Credo che sia tramontata l’aurea di alternativa positiva che aveva accompagnato i movimenti islamisti durante le dittature”, spiega la dottoressa Trevisani. “Le prove di governo sono state fatali, basta guardare la popolarità. Finita la discriminazione, arrivate le responsabilità di governo, I movimenti sono entrati in crisi. Detto questo, all’interno, le donne non si fermano. Al Cairo le sorelle musulmane, in vista dell’8 marzo scorso, avevano dato vita a una serie di riunioni nelle quali spesso erano in disaccordo con la linea politica della dirigenza del movimento. Che in quanto tale ha al suo interno varie anime e correnti”.

La donna e la guerra, narrazione spesso solo passiva. Che dimentica una realtà spesso protagonist, attiva. Dalle donne in armi, in tante zone del mondo, fino al protagonismo delle rivolte arabe. Forse è tempo di cambiare la narrazione del ruolo femminile nel conflitto. “Non è che queste donne sono diventate protagoniste all’improvviso. E lo spazio pubblico che ha generato questa differenza di visibilità, lo spostamento del materno e della cura dal cortile alla piazza. Un esempio è quello delle madri dei martiri, che sono state tutto il tempo in piazza Tahrir, non a casa, e questo è un cambio importantissimo”, racconta la psicologa. “Una potenza simbolica enorme, riconosciuta anche dalle giovani, basti pensare alle associazioni di donne che hanno monitorato le operazioni di voto in Egitto, nelle aree rurali più critiche. Pensate alla stessa madre di Mohammed Bouazizi, che ha rinunciato a far perseguire la poliziotta con cui si era scontrato il figlio prima di darsi fuoco e dare inizio alle proteste. Questa madre si è presa l’autorità di rinunciare al giustizialismo, per lottare davvero per il cambiamento, senza accontentarsi di punier il capro espiatorio. Figure emblematiche di questa apertura di una porta ache nessuno richiuderà. Vigileranno, da protagoniste. Lo facevano, continuano a farlo, ma le rivoluzioni hanno dato il risconoscimento a questa realtà. Come nel film di una cineasta egiziana, nel quale una donna dice che la rivoluzione ha cambiato anche gli uomini. Basta pensare al coraggio del fidanzato che per la prima volta testimonia con la sua compagna, vittima di stupro da parte della polizia. O la prima ragazza che denunciò i test di verginità in Egitto, supportata dal padre, esponente religioso. Un padre che magari prima sarebbe stato suo nemico. E’ tempo di togliere il velo, ma quello che abbiamo noi nella testa, iniziando a guardare con uno sguardo nuovo a queste donne, che lottano contro i loro problemi come sono ancora costrette a fare le donne in tante parti del mondo. Italia compresa”.



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