Sotto l’albero di Dona Flor

Nel cuore del Mozambico rurale, scuola e prevenzione sanitaria diventano un atto comunitario

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/10/Chiara.jpg[/author_image] [author_info]di Chiara Segrado, dalla provincia di Gaza, Mozambico. Friulana, laureata in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Gorizia e con un Master in Microfinanza, lavora dal 2002 nell’ambito della cooperazione internazionale allo sviluppo. Ha vissuto in Brasile, India e in Medio Oriente e da quasi 6 anni lavora nei programmi internazionali di Save the Children Italia, viaggiando in ogni angolo del mondo. Ama le filosofie orientali, i gatti e la musica di Franco Battiato[/author_info] [/author]

30 ottobre 2013 – Attraversato il fiume Limpopo e lasciatisi Chokwe alle spalle, si entra nell’entroterra della provincia di Gaza, Mozambico. Sulle strade di terra battuta si affacciano timidi dei minuscoli villaggi di fango e canne, qua e là qualche sparuto edificio in muratura. Galline e capre passeggiano placide, il paesaggio è puntellato di arbusti. Lo chiamano bush, questo paesaggio così vicino al Sud Africa.

Dona Flor vive qui e fa l’animatrice comunitaria. Con lei nel comitato di cui fa parte, ci sono altre donne, ed alcuni uomini. Le donne sono responsabili della salute dei bambini, della nutrizione, dell’educazione, di dare supporto psicosociale e assistenza prenatale con un occhio alla salute riproduttiva. La nostra riunione si tiene sotto un enorme albero, siamo seduti in cerchio su sedie di plastica. Ognuna di loro si alza, si presenta e ripete in maniera chiara il proprio ruolo.

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Sono tutti consapevoli dei rischi che corrono i bambini in un villaggio rurale del Mozambico, e tutti sembrano convinti nel portare avanti il proprio ruolo con coscienza. I bambini intanto fanno lezione sotto un altro albero, un po’ più in là. Poco fuori dall’edificio scolastico. Non fa troppo caldo e si sta bene sotto questi enormi rami che ci proteggono dal sole.

Mentre altri gruppetti di donne avvolte in stoffe colorate si avvicinano, Dona Flor ci spiega che proprio in quel giorno ci sono nel villaggio gli operatori sanitari. Con una bilancia legata ad un ramo da un pezzo di garza grezza pesano i bambini e ne verificano lo stato di salute. Il peso viene verificato mensilmente e registrato in una scheda gialla che le mamme portano con sé, spesso avvolta in minuscole buste di plastica, forse a proteggerla dagli agenti esterni.

Dalla verifica mensile del peso si comprende se il bambino sta bene, il suo stato nutrizionale ed eventualmente si capisce come intervenire in caso di malnutrizione o altre situazioni che possano mettere la salute del piccolo a rischio. Gli operatori hanno con sé casse di medicinali, vaccini che iniettano o che somministrano oralmente ai bambini spaventati, come dappertutto, dagli aghi, ma anche contraccettivi di vari tipi per le mamme che desiderano pianificare in maniera diversa le gravidanze. Gli operatori tendono a spingere sull’uso del preservativo, che garantisce anche una buona copertura dalle malattie sessualmente trasmissibili, ma che spesso, troppo spesso, non viene gradito (dagli uomini) e quindi utilizzato.

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Questa informazione ci viene data tra le risatine di tutti, inclusi i leader del villaggio che sogghignando abbassano lo sguardo. Chiaramente in questo modo si continua a verificare una proliferazione di casi di AIDS tra le donne, situazione che mette a rischio anche i bambini. Non è raro che tra i farmaci degli operatori sanitari figurino gli antiretrovirali, somministrati anche ai bambini. E scatole di pillole anticoncezionali, che mi chiedo come facciano queste donne a prendere correttamente non avendo l’orologio e di frequente né acqua e né elettricità. “.. molto spesso questo sistema non funziona, infatti”, ammette un po’ sconsolato un giovane medico che viene periodicamente al centro di salute più vicino al villaggio (distante comunque qualche decina di kilometri) dal capoluogo della Provincia, Xai-Xai.

Ci parla con orgoglio di nuovi metodi anticoncezionali come l’impianto, che una volta iniettato sotto pelle garantisce cinque anni di sterilità. Detta così qualcosa in qualche modo stona dentro le nostre orecchie, ma non facciamo in tempo a realizzare di che si tratti che il gruppo di donne inizia a cantare una melodia di saluto alla nostra volta. Battendo le mani ci allontaniamo dal villaggio. “Kanemambo!”. “Kanemambo!”. Grazie.



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