Colpevoli di sopravvivenza

Tra i profughi-prigionieri di contrada Imbriacola, a Lampedusa. Il racconto.

di Alessandra Ballerini*

1 novembre 2013 – La parola che più sale alle labbra, dopo vergogna, è complicità. La frase intera, formulata seppure in forme diverse, suona più o meno così: non voglio sentirmi complice. A volte resta pensiero, non detto ma espresso comunque. Troppo prepotente lo sdegno per tacere del tutto.

Siamo a Contrada Imbriacola, dentro il Cpsa di Lampedusa, tra pulci, pidocchi, scoli di gabinetti, divise armate, cani abbandonati, tute mimetiche e grate. E bambini. Tantissimi bambini. Non credo di averne mai visti cosi tanti, cosi piccoli, tutti insieme. Certamente non li ho mai visti rinchiusi in una gabbia.

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Il 16 ottobre sono 883 i prigionieri della nostra “accoglienza”. Tra loro 182 minori e 97 donne. In un Centro che potrebbe ospitare (e non rinchiudere) al massimo 250 persone. Sono Siriani, Nigeriani, Eritrei, Palestinesi, Somali, Nepalesi, Ghanesi…
Tutti sono partiti dalla Libia dove hanno subìto torture e prigionie. Hanno pagato ad ogni prezzo il loro viaggio disperato. Sono saliti su una barca a perdere, come le loro vite, unica via di fuga da guerre e persecuzioni.
Oggi sono qui, di nuovo rinchiusi, illegittimamente privati da giorni della libertà personale.

Alcuni sono gli scampati dei naufragi del 3 e dell’11 ottobre. Nessuno di loro ha mai parlato con un avvocato né con un giudice. A nessuno è stato notificato alcun atto che ne giustifichi il trattenimento o la detenzione, nessuno vorrebbe restare lì rinchiuso un minuto di più.

[blockquote align=”none”]Alcune mamme siriane chiedono, con l’ingenuità di chi crede di essere ascoltato, se possono pagarsi un albergo con i soldi che hanno sottratto alle onde. E invece dormono tutti per terra, se sono fortunati hanno a disposizione un materassino di gomma piuma grezza, quasi mai una coperta. Delle donne ci fanno entrare nella loro “stanza”. Buttati sul pavimento lercio e bagnato una dozzina di materassini. Ci dormono in 24: quattordici adulti e dieci bambini. C’è un catino azzurro per terra, al centro della stanza: serve a raccogliere l’acqua che cade dai buchi del soffitto. Ai lati sacchi pieni di immondizia. Le donne si lamentano per il freddo, di notte sono costrette ad alzarsi coi loro piccoli in braccio per tentare di muoversi e scaldarsi. E loro comunque un tetto, seppure bucato, sopra la testa lo hanno.[/blockquote]
La maggiore parte dei profughi di Contrada Imbriacola dorme direttamente all’aperto, sopra materassini immondi sulla terra nuda e sotto teli neri ricavati da sacchi della spazzatura tesi tra alberi e pali come miserevoli tende.
Alcune bambine hanno preso i pidocchi, le riconosci perché in testa portano un ritaglio delle lenzuola di carta annodato ai quattro lati. Dei bimbi tirano calci a una palla di pezza, altri corrono inseguendo il niente e scappando da tutto. Li guardi e ti auguri che siano troppo piccoli per serbare ricordi dell’orrore che si sono lasciati alle spalle e di quello che hanno trovato qui.

Seduti per terra ti si stringono intorno, quando scorgono dalle sacche pennarelli, fogli da disegnare e animaletti, urlano all’unisono, ma in lingue differenti, la parola “gioco”. Alcuni hanno già sguardi adulti, altri sono spersi, ma molti ancora sorridono e con loro, per chi li ha, i genitori. Sorridono e ringraziano, nonostante tutto.
Nonostante il lordume, la detenzione, il freddo e persino la fame alle quali illegalmente sono costretti.

Molti bambini, dopo giorni e notti di questa nostra “accoglienza”, si sono già ammalati: febbre e dermatiti. Li guardi mentre si muovono nello sporco, tra cani randagi, pullman e mezzi militari in continuo movimento, mentre raccolgono da terra qualsiasi cosa che poi puntualmente portano alla bocca e pensi che i loro angeli custodi si stanno dando un gran da fare per mantenerli comunque incolumi, nonostante noi.

Anzi nonostante loro. Loro, quelli che comandano, quelli che, incapaci di accogliere e proteggere, non potendo più respingere, li rinchiudono e maltrattano, offendendo la dignità dei profughi e quella di noi cittadini che stiamo increduli a guardare, offrendo tutt’al più, quand’è consentito, un sorriso e una matita colorata.
E ci sentiamo alla fine comunque complici.

Perché la generosità della brava gente rischia di diventare compensativa e funzionale alla meschinità di chi ignora, rinchiude, criminalizza e offende, quasi sempre lucrandoci.
Ma la generosità di chi accoglie per scelta è inarrestabile. Soprattutto sull’Isola. E se serve a limitare i danni di chi non sa proteggere neanche dei bambini, neppure per dovere istituzionale e giuridico, allora ben venga.

[blockquote align=”none”]Nella rete della gabbia per migranti di Contrada Imbriacola, da sempre, c’è un buco. Chi riesce, se sufficientemente agile e in buona salute, può tentare delle piccole “evasioni”. Così via Roma, nel centro dell’Isola, si popola di piccoli gruppi di naufraghi. Chi è riuscito a sottrarre alla fuga e alla guerra qualche risparmio, lo spende per acquistare per sé e per i familiari rimasti rinchiusi, cibo, vestiti e schede telefoniche. Beni essenziali che dovrebbero ricevere a sufficienza nel Centro ma che sono invece costretti a conquistarsi da soli. Al resto pensano comunque i lampedusani. Li vedi consegnare, quasi furtivi, pacchi con vestiti e giochi per i bimbi, oppure offrire un tè o un arancino nel linguaggio muto dei sorrisi.[/blockquote]

Ma per le strade dell’Isola si aggirano in questi giorni anche altri migranti. Non sono profughi, sono spie, sono gli occhi del Governo Eritreo puntati sui sopravvissuti. Si fingono partecipi e solidali e intanto carpiscono informazioni, ricostruiscono percorsi e identità nella speranza di poter punire i dissidenti, quelli che con il loro disperato approdo testimoniano al mondo la ferocia dalla quale scappavano.

Tutti li vogliono punire questi profughi, colpevoli di sopravvivenza. Il nostro Paese li rinchiude e indaga, il loro tenta di stanarli per poi perseguitarli o imprigionare i familiari rimasti in patria.
La sera i naufraghi “evasi” tornano al Centro. Verranno sgridati svogliatamente da uomini in divisa e perquisiti da mani guantate di lattice. Perché questa prigionia, seppure del tutto illegittima, disumana e fallata, deve mantenere una parvenza di insensato rigore.

Si sparge intanto sull’Isola la voce di una cerimonia “ufficiale” in ricordo delle vittime del naufragio indetta per lunedì 21 ad Agrigento.
Non si tratta dei tanto promessi funerali di Stato: i funerali, senza lo Stato, sono già stati celebrati all’insaputa e contro la volontà dei superstiti, alla spicciolata, nei diversi comuni dell’Agrigentino dove sono state seppellite le salme senza che i familiari potessero piangerli.

Si tratta di una pantomima a favore di telecamere, ma contro le ultime volontà di chi si dovrebbe commemorare.
D’altronde nessuno le ascolta le volontà dei profughi, né quelle dei vivi né quelle dei morti.
Gli Eritrei avrebbero voluto che le salme dei sommersi facessero rientro a casa, al Paese da dove da vivi tocca fuggire, ma da morti la terra protegge dal delirio dei potenti.

[blockquote align=”none”]Ma nessuno li ha ascoltati. Nessuno ha concesso ai naufraghi la pietas che pure oggi si invoca per un mai pentito gerarca nazista. E cosi i profughi hanno dovuto rinunciare persino ad un’ultima preghiera e ai funerali che chiedevano ma che non avrebbero mai voluto celebrare. Forse ha ragione la mia amica Paola quando pronuncia un’altra delle parole inevitabili sull’isola. Il mare, mi spiega, è stato l’unico a prendersi veramente cura dei corpi dei naufraghi: li ha risputati vivi tra le salvifiche mani di uomini e donne con o senza divisa, oppure, senza più respiro li consegna alle braccia dei sommozzatori e instancabilmente accarezza le salme ancora nel fondale, cullandole fino a quando torneranno alla terra. [/blockquote]

Paola sa, come tutti gli isolani, che non è del mare la responsabilità di questa strage, ma delle leggi e degli uomini che comandano senza risolvere e senza ascoltare. Senza vergogna e senza pietà.
Tutte le associazioni umanitarie non solo da oggi chiedono a chi ci governa di attivare canali umanitari per permettere a chi fugge dal proprio Paese di poter entrare regolarmente e in maniera protetta nella fortezza Europa, ottenendo la protezione e lo status di asilanti o rifugiati che spetta loro di diritto. Tutte ad oggi sono state ignorate.
Così come sono ignorati i diritti e le richieste di questi profughi che non vogliono restare in un paese, il nostro, che li persegue come criminali, li disprezza e rinchiude, ma vorrebbero proseguire il viaggio verso patrie che sanno più accoglienti e rispettose dei diritti umani.

Cala un’altra sera sull’isola. Ripetiamo come un mantra segreto, un’altra irrinunciabile parola: speranza. La ripetiamo come fosse una terapia, un antidoto contro tanto orrore, ce la passiamo tra noi, la spacciamo come una droga, la sussurriamo come una preghiera.
I migranti sono portatori sani di speranza. La speranza li ha tenuti vivi nella fuga e nell’approdo, li fa resistere nell’attesa e nella prigionia, nelle privazioni e nel lutto.

Speranza è il loro dono per noi che stiamo a guardarli ammirati di tanto coraggio, tanta resistenza, tanta dignità. Speranza è quello che ci resta, è la promessa di cambiare, come individui e come Paese.
Speranza che, da domani, possano arrivare tutti vivi i profughi del mare, forti della nostra protezione, della loro ostinazione e dei diritti universali.
Speranza di ritrovare presto questi naufraghi liberi da fughe e prigionie e noi cittadini liberati dalla cattiva politica, dalle pessime leggi, dal miope egoismo che ci governa.

E la speranza alla fine ha l’ultima parola.

*Avvocato civilista specializzato in diritti umani e immigrazione



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