Belgrado, mondo

Il derby della capitale serba finisce con i tifosi del Partizan che danno fuoco alla curva, scatenando i soliti luoghi comuni

di Christian Elia

5 novembre 2013 – E’ successo ancora. Questa volta sono stati i tifosi del Partizan, ma faceva lo stesso. L’importante è dare, per l’ennesima volta, in pasto ai media generalisti del pianeta qualche immagine satura di pregiudizi, colorata di stereotipi, trama ideale per narrazioni precotte.

Lo chiamano Večiti derbi, che significa eterno, infinito. E’ il derby di Belgrado, in Serbia, tra il Partizan e la Stella Rossa. L’ultimo l’ha vinto la Stella Rossa, per uno a zero, autorete di Obradovic. Ma non se ne sarebbe neanche parlato se i tifosi del Partizan non avessero reagito generando un vero e proprio rogo nel settore dello stadio Marakana, chiamato così in onore del fratello maggiore di Rio de Janeiro, bruciando di tutto.

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Ecco, perfetto. Bravi. Quello che serviva per ristampare il copione, stantio, dell’ennesima replica: la ferocia disumana balcanica. Una delle forme di orientalismo più dure a morire, una leggenda che si autoalimenta in Europa dalle guerre nella ex-Jugoslavia degli anni Novanta in poi. Come i bimbi dagli occhi azzurri rapiti dai rom, per intenderci.

A Belgrado, purtroppo, negli stadi non accade nulla di più o meno nobile del resto del mondo. Quando la politica avvelenava i pozzi della convivenza, lo stadio diventava un ripetitore, uno schermo del disagio. E’ capitato altrove, buon ultimo in Egitto, dove gli ultras delle principali squadre del Cairo hanno avuto un ruolo attivo nella rivolta e dove a Port Said si sono consumate sanguinose vendette.

Perché in fondo, a tanti, piacerebbe pensare che quel catino di cemento è un non luogo, camminato da alieni, estraneo alle società che abitiamo e che sogniamo controllate e gestite. Non è così e Belgrado non fa differenza.

I Deljie (gli eroi) della Stella Rossa e i Grobari (i becchini) del Partizan, i gruppi del tifo organizzato, sono simboli di appartenenza, hanno visibilità, seguaci pronti a tutto. Anche a delinquere, pure e soprattutto fuori dallo stadio. Anche questo, però, non è un privilegio serbo o belgradese, basta dare una veloce lettura alle fedine penali dei leader del tifo organizzato nostrano.

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Bianco neri (Partizan) contro bianco rossi (Stella Rossa) è un pezzo di un’umanità folle di calcio, sport che resta – business a parte – uno degli ultimi grandi romanzi popolari. Igor Bogdanov, titanico energumeno divenuto icona il giorno di Italia – Serbia, valida per le qualificazioni ai campionati europei 2012, giocata a Genova nel 2010, è rassicurante.

Perché è comodo pensare che la sua ferocia sia genetica, lombrosiana. Lui è così perché è nato così, poi è serbo, figurarsi. Noi siamo differenti. Invece no. Ivan il terribile è il lato oscuro della società serba, ma lo è anche di quella italiana o greca (pensate ad Alba Dorata) e di mille altri luoghi. Mille singoli genius loci del fallimento di un sistema che, a tutte le latitudini, continua a non affrontare le radici dell’odio e del razzismo.



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