Il vero e il falso, due casi

La casa di Claude Monet a Giverny è molto utile per capire in che modo il padiglione dell’Angola, vincitore della Biennale di arti visive a Venezia, è un falso e quale genere di danno viene prodotto da quel falso veneziano, rispetto al beneficio che troviamo a Giverny. Per contorno Giverny ci aiuta anche a prendere le misure di una possibile politica culturale.

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/11/Schermata-2013-11-04-alle-13.52.301.png[/author_image] [author_info]di Vito Calabretta. Sono nato in un paese di ottocento abitanti in provincia di Catanzaro, cresciuto a Ventimiglia e ho avuto una prima formazione scolastica a Mentone, in Costa Azzurra, dove ho frequentato anche il Conservatorio Municipale. Mi sono trasferito a Milano per iscrivermi a un corso universitario di Discipline Economiche e Sociali, mi ci sono laureato, ho vinto dopo anni di tentativi un dottorato di ricerca in storia della società europea. Mi è stato impedito di discutere la tesi di dottorato con l’accusa di non voler «fare lo storico, ma il Carlo Ginzburg, il Derridà, ‘naltro po’ il Rolanbàrt». Ne ho preso atto; nel frattempo avevo iniziato a frequentare i Seminari in Antropologia dei Poteri della École Française di Roma, avevo iniziato a collaborare con Il Manifesto e con L’Unità, a scrivere in versi e a lavorare sull’arte. Già da allora, in ogni caso, avevo iniziato a occuparmi delle stesse attività: affrontare realtà, cercare di capire qualcosa, raccontarlo. Spero di riuscire a continuare ancora[/author_info] [/author]

Giverny è un luogo turistico amministrato dalla Académie des Beaux Arts , istituzione di Stato francese che fa parte dell’Institut de France e molto frequentato da persone di ogni nazionalità. È stato caratterizzato anche da una colonizzazione pittorica americana, spinta dalla marea di una devozione per Claude Monet e per il mito dell’impressionismo. Visitare questo luogo il due settembre 2013 vuol dire approfittare di una condizione climatica benevola, di una temperatura gradevolmente calda e di un bombardamento olfattivo nel quale si imbeve il delirio di colori, il florilegio, letteralmente, che ci si impone come un macrocosmo dove siamo schiacciati e, peggio ancora, centrifugati nelle varietà botaniche, nelle situazioni ambientali, nelle occasioni che diventano, è il caso di dirlo, tanti motif.

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Motif è il concetto cardine del dispositivo di Giverny. Claude Monet appartiene a una temperie artistica che rivendica la frequentazione del motif, cioè la frequentazione personale e fisica della situazione che l’artista intende ricreare sulla tela. È la fonte reale che garantisce la credibilità dell’opera d’arte. Si va al motif, afferma la retorica del caso e la leggenda narra che Paul Cézanne sia morto dei postumi causati dall’eccessivo indugio , sotto a un temporale, al motif. Essendo Claude Monet un pilastro dell’edificio culturale definito impressionismo, lo si immagina intento al motif, cioè al trasferimento di un’esperienza che egli sta vivendo in un luogo del mondo, in pittura: la cattedrale di Rouen in un certo momento del giorno; i platani a Bordighera, la falaise a Etretat…

[blockquote align=”none”]Ebbene: a Giverny egli si è costruito, nel corso di alcuni decenni, la propria situazione di motif, un cosmo all’interno del quale attingere le fonti iconografiche del suo lavoro pittorico. Il motif è infatti il luogo della fonte e Monet, così come fa ogni storico della nostra civiltà, ha costruito egli stesso la propria fonte: le sue ninfee sono la traduzione in pittura di una realtà che egli ha creato nel giardino di Giverny; così il ponte giapponese e molte, molte altre situazioni. Il giardino di Giverny è dunque una realtà densa di significato, oltre che emozionante e inebriante. È una importante opera di Claude Monet ed è un momento di incontro tra realtà e forma, tra creato e creazione.[/blockquote]

All’interno di siffatta mirabolante realtà ci troviamo pio nell’allestimento della sua abitazione, una finzione che ha sulla nostra esperienza un forte impatto. Si tratta in effetti della casa che Claude Monet abitò a Giverny, oggi adattata a esigenze turistico-pedagogiche. Vi troviamo una cucina e una sala da pranzo invase ciascuna da un colore impressionante, giallo e azzurro, e da utensili; un’altra parte accoglie stampe giapponesi che provengono dalla collezione dell’artista. Vi è poi la parte con i quadri che Claude Monet aveva appesi alle sue pareti. È una offerta di grande interesse perché ci dice qualcosa sul gusto intimo dell’artista (posto che egli avesse il potere di scegliere quali quadri possedere: non sempre è così) e quindi sulla sua anima. Ma si tratta di falsi: tutti i quadri sono stati dipinti da uno studio, sono imitazioni e pertanto noi non vediamo che una vaga evocazione di ciò che Monet viveva.

L’operazione di falso ha sicuramente ragioni turistico e commerciali ma non possiamo negare una sua vocazione pedagogica o anche pseudo filologica e usciamo dalla casa di Giverny arricchiti.

Giverny è dunque il luogo di un incontro tra vero e falso, tra realtà e invenzione (la natura e il giardino; i quadri evocati e la loro copia) molto articolato e per alcuni aspetti esemplare.

 

Le riproduzioni dei quadri di Cézanne, Renoir, Caillebotte e di molti altri, appese alle pareti della casa di Giverny, mi hanno fatto venire in mente il padiglione dell’Angola alla biennale di Venezia, premiato con il Leone d’Oro.
Si tratta di un falso inverso rispetto a quello di Giverny. Nel palazzo Valmarana che sta a San Vio, proprietà della Fondazione Cini e sede di una collezione di dipinti , abbiamo appesi alle pareti quadri della pittura toscana e ferrarese del Rinascimento. Si tratta di una realtà molto suggestiva, che ci si concentri sui nomi di pittori più (Piero della Francesca, Cosmè Tura, Beato Angelico, Jacopo Pontormo, Dosso Dossi…) o meno famosi. All’interno di questa autentica realtà, i responsabili dell’allestimento del Padiglione della Biennale hanno inserito un falso: presentate come frutto dell’analisi della realtà di Luanda, capitale dell’Angola, le fotografie dell’artista Edson Chagas non dicono niente su quella realtà. Sono scatti rivolti a oggetti qualunque, trovati in luoghi qualunque, trasferiti in altri luoghi qualunque dove vengono ripresi con un presunto valore artistico. Indipendentemente dal valore estetico delle immagini prodotte, è falso che esse siano indicative, esplicative, evocative o anche allusive rispetto alla realtà di Luanda. I responsabili del Padiglione infatti riferiscono che molti hanno pensato che le fotografie siano state scattate a Venezia.

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L’allestimento punta sull’impatto contestuale nel quale la proposta si svolge e in effetti è suggestivo vedere le pile di fotografie appoggiate sui bancali nella stanza del palazzo Veneziano. È una suggestione spontanea, la stessa che possiamo provare di fronte a una ragnatela o alla crosta di un muro. A parte il fatto che ciò non garantisce lo statuto di opera d’arte, in ogni caso non dice niente su Luanda o sull’Angola. È un falso inserito nella realtà della storia dell’arte (la pittura rinascimentale toscana e ferrarese).

[blockquote align=”none”]Diversamente dal falso di Giverny (il giardino che diventa reale opera; la ricostruzione della casa che offre reali, seppur frammentarie, indicazioni su Claude Monet) che produce ricchezza, il falso di Venezia genera confusione, sporcizia, impoverisce: impoverisce la percezione per non parlare della conoscenza di Luanda e dell’Angola; impoverisce la fruizione dei dipinti appesi ai muri come farebbe una ragnatela sul volto della Madonna dipinta da Piero della Francesca o la crosta su un muro o su una parte dell’interno del Palazzo.[/blockquote]

Per lo meno durante il primo periodo della Biennale, gli avventori di Palazzo Valmarana Cini erano invitati a prendere le immagini appoggiate per terra e a portarle via. L’intento dichiarato era di consentire alle persone di costruire in proprio una galleria di immagini, di appropriarsi di un’analisi artistica, di accedere così a ciò che la retorica del sistema definisce l’empireo dell’arte. Le immagini prodotte da Edson Chagas, diversamente da quelle prodotte dallo studio sulla base dei quadri originali, posseduti da Claude Monet, sono infatti presentate come opere, tanto quanto gli originali che furono appesi da Monet alle pareti di Giverny e agli altri appesi alle pareti di Palazzo Valmarana Cini. Al di là del valore storico ed eventualmente commerciale, probabilmente distante se consideriamo una immagine di Edson Chagas e una di Beato Angelico, in entrambi i casi, ci dice il responsabile della presentazione veneziana, siamo di fronte a un intrinseco valore artistico. Le differenze tra i due intrinseci valori artistici sono misurate dalla storia, dal contesto culturale di riferimento e da altre variabili (i quadri di Piero della Francesca sono stati per un certo tempo poco stimati in ambito artistico). Siamo comunque, dice chi ha allestito il padiglione, di fronte all’arte.

Ho provocatoriamente chiesto se a qualcuno non fosse venuto in mente di prelevare e portare via, anziché le immagini attribuite a Luanda, un dipinto attribuito al Pontormo. Sarebbe un gesto artisticamente e intellettualmente incisivo perché sottolineerebbe in modo secco il tema della relazione tra valori e significati. Mi è stato risposto, ridendo, che il servizio d’ordine in sede è stato istruito in modo agguerrito e che il rischio pertanto non sussiste. A Giverny non vi è bisogno di un servizio d’ordine messo a tutela dei petali e delle piante.

[blockquote align=”none”]Politica culturale: Il sito di Giverny, dopo la morte dei successori di Claude Monet, è stato abbandonato e ha incominciato ad andare in malora. Ripreso da alcuni dirigenti dello Stato e dalla Accademia di Belle Arti di Francia, è stato chiesto l’aiuto di soggetti privati che hanno contribuito, da vari luoghi del mondo e in particolare dal continente americano, al ripristino del sito, che oltre ad accogliere visitatori e turisti, ospita artisti in residenza. È un riferimento interessante.[/blockquote]



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