Polvere dell’India – puntata 2

Le miserabili. Schiave degli schiavi in un Paese in cui molti credono ancora che la donna è proprietà dello sposo e della sua famiglia

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/06/foto-tessera.jpg[/author_image] [author_info]di Alessandro Ingaria, da Vrindavan, stato del Uttar Pradesh, India. Vivente. Laureato in giurisprudenza, con un passato di consulente gestionale per imprese profit e non, nel 2008 inizia una rivoluzione esistenziale: da cittadino del mondo, lavora in Afghanistan, in Latino America e in Est Europa, sperimentando soluzioni biopolitiche innovative sulla tematica dei diritti umani. Intensa l’attività creativa, da autore di articoli per riviste e periodici online (tra cui Peacereporter) a ideatore di progetti audiovisivi sull’analisi complessa delle comunità umane odierne. E’ uno dei fondatori del movimento Geronimo Carbonò. www.geronimocarbono.org[/author_info] [/author]

“Woman is the nigger of the world…yes she is

If you don’t believe me, take a look at the one you’re with

Woman is the slave of the slaves

Ah, yeah…better scream about it”

Il viso è quello di chi torna da una visita in un girone dantesco. Sudhanya  e Isabel* sono appena rientrate da Vrindavan. Un viaggio lungo, nell’India del nord, a qualche ora di autobus da Dehli. La città, situata nell’Uttar Pradesh, è tristemente nota per le vedove che vanno là a morire. Le leggende che si raccontano ai bambini, narrano di elefanti che si isolano nell’ora della morte. La realtà del mondo imperfetto in cui viviamo, parla di donne che rinunciano a vivere. La loro idea era di recarsi a Vrindavan per passare alcune settimane nell’asrham che ospita le vedove, costruito grazie ai soldi di alcune Ong.

Lo scopo del viaggio era coinvolgere le ospiti in attività che potessero distrarle dalla condizione di sospensione in cui vivono. Sudhanya e Isabel ci hanno provato due volte nell’ultimo anno. Per due volte si sono recate a Vrindavan, in accordo con il responsabile della struttura, per provare, con stimoli soprattutto manuali e intellettuali, a risvegliare l’amore per la vita. L’esperienza è stata profondamente impattante. La reazione da parte delle vedove pressoché nulla. Per la prima volta in anni di lavoro si sono trovate di fronte a persone vive, sane, decorosamente accudite, ma morte dentro. Corpi deambulanti in attesa della fine.

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Le donne ospitate dalla struttura, circa un centinaio, sono in una condizione decisamente di favore rispetto alle migliaia che mendicano per strada. Ancora in molti stati dell’India, in particolare nel Bengala, la tradizione impone alle vedove di abbracciare Krishna. Vrindavan è il luogo in cui Krishna trascorse la sua giovinezza e dove conobbe molte delle sue 16.108 mogli. In nome di ciò, le donne si recano in questa città in attesa della morte. Secondo uno studio dell’Unifem, le vedove sono 15mila su una popolazione di circa 57mila persone.

E’ senza dubbio la più miserabile condizione umana che si possa incontrare. Sono donne allontanate dalla società, abbandonate dai propri figli, prive di una ragione per vivere.  Con queste parole Sudhanya e Isabel raccontano la propria esperienza. Mai, nella loro vita, hanno incontrato una situazione peggiore. Persone afflitte da una condanna sociale terribile, quella dell’inutilità. Vedove, ma non solo; il centro riunisce donne abbandonate dal marito, povere rifiutate dalle famiglie, emarginate dalle comunità.

La convinzione che persiste è che un donna degna debba sempre essere protetta da un uomo. Prima il padre e poi lo sposo. Quando quest’ultimo muore, la vedova si converte in una minaccia all’ordine sociale, soprattutto se è giovane. I motivi per cui viene apposto questo stigma di “creature anormali” sono vari: costo del sostentamento, superstizione, eredità.

“Convivere con la miseria umana è troppo forte; chi finanzia questi centri, di fatto, non riesce a sopportare di vivere lì, tanto vicino agli ultimi. – racconta Isabel – Per questo vengono incaricati attendenti locali che, tra corruzione  e disinteresse, non permettono al fiume di denaro che viene destinato alle vedove di giungere a destinazione.”

“L’accettazione del destino è talmente forte che queste donne si trasformano in morti viventi. Non c’è modo di lottare contro questo, non c’è modo di lottare contro lo stigma sociale.” Gli occhi di Isabel si fanno tristi: “Come è possibile che qualcuno abbandoni sua madre così. Sono stata in Iran e in altri paesi musulmani, dove spesso le donne non valgono niente o devono camminare totalmente coperte; non ho mai visto una situazione così brutta come a Vrindavan”.

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La città è uno dei luoghi sacri dell’Induismo. Una città decadente con palazzi abbandonati circondati da umanità decadente. Centinaia di piccole scimmie aggressive cercano di appropriarsi degli oggetti che le persone indossano.  Poco più in là, in un sacro e sudicio fiume, le donne si lavano.

Le parole sono importanti. Curiosando nella storia delle lingue si capisce anche quanto lo erano per i nostri predecessori. La parola italiana “vedova” deriva dal latino vidua, a sua volta incorporato dal sanscrito vidhavà che, secondo alcuni, significa anche vuota. Segno infame della presenza di un argomento che tormenta l’umanità da millenni.

*Sudhanya  Dasgupta è una ricercatrice universitaria.  Ha lavorato per anni con donne povere e analfabete dell’India.

Isabel Herguera è una regista. Nei suoi progetti hanno lavorato donne provenienti da tutto il mondo. Le fotografie sono di Isabel.



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