Full Metal Jacket è un film insopportabile

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Sono passati almeno 10 anni dall’uscita di ognuno dei film che rivisiteremo in questo spazio, eppure, nel bene o nel male, nulla pare essere cambiato. Pare che le tematiche siano più attuali del previsto. Dunque, si ripropongono, proprio come i peperoni. Speriamo solo di digerirli il prima possibile[/note]

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/07/Schermata-2013-07-12-alle-14.20.02.png[/author_image] [author_info]Alice Bellini. Scrittrice, si laurea in cinematografia tra Londra e New York. Non è una critica di nulla, ma le piace dire la sua, sapendo che, comunque, la risposta a tutto è inevitabilmente 42.[/author_info] [/author]

Full Metal Jacket è un film insopportabile. Assolutamente indimenticabile, chi non l’ha ancora mai visto si sta perdendo una fetta assolutamente irripetibile della storia del cinema. I livelli a cui Kubrick arriva con questa pellicola datata 1987 sono fondamentalmente ineguagliabili, come una mitragliatrice che, nella follia dei suoi spari isterici, centra impeccabilmente tutti i bersagli, uno ad ogni colpo, senza mai sbagliare.

Orchestrato in maniera perfetta, dalla sceneggiatura alla regia, dagli attori alla colonna sonora (non intesa, in questo caso, solo come musiche, ma proprio come tutto il corredo di rumori e scelte audio), passando per tutto quello che va a comporre una pellicola, Full Metal Jacket riesce a fare quello che nessun altro film era ancora riuscito a fare veramente. Perché, come abbiamo già visto tempo addietro, Coppola ci aveva provato con la sua Apocalisse a mostrare l’orrore della guerra, ma era anche lui caduto vittima di quella spettacolarizzazione dai toni futuristi e di quella magnitudo delirante, fino a diventare, lui stesso, una specie di macchina da guerra.

Full Metal Jacket non strega, non affascina, non spettacolarizza. Full Metal Jacket non è poesia. Full Metal Jacket non è arte. Full Metal Jacket non è immensità. Full Metal Jacket è follia allo stato puro. È i nervi che sono schizzati e hanno fatto schizzare tutto il resto. È isteria. Full Metal Jacket è insopportabile perché è onesto. Perché non risparmia nulla. Perché non ha nessuna pietà. Perché mette a nudo senza riserve.

Full Metal Jacket è la Portaerei Cavour, partita il 13 novembre per una “crociera” nel Mediterraneo, tra il Golfo Arabico e l’Africa, per esporre e vendere, come una boutique galleggiante, le armi che trasporta a bordo. Per esporle e venderle a popoli dilaniati da conflitti, guerre, dittature e migliaia e migliaia di civili morti in nome di una pace e una democrazia che nessuno ha ancora mai visto e che puzzano in maniera nauseabonda di petrolio e di quelle stesse dannate armi.

Il delirio è ormai giunto a un punto di non ritorno, tra droni telecomandati e l’ira dei loro comandati, che si lamentano di essere visti come dei meri “giocatori di videogiochi” e che, anzi, rivendicano il loro stress psicologico, più alto che se fossero direttamente su quell’aereo a sganciare una bomba. Perché, come tutti raccontano, prima di ammazzare il loro bersaglio, lo seguono per giorni e giorni, intrufolandosi nella sua vita, nelle sue abitudini, nei suoi affetti. Così, quello che devono uccidere è qualcuno che, in qualche modo, conoscono, provocando, oltretutto, la sofferenza di chi gli sta attorno. Ditemi voi se questo non è delirio. È normale lamentarsi perché l’opinione pubblica non prende abbastanza a cuore lo stress che provoca l’ammazzare qualcuno? Si può davvero decidere cosa sia peggio tra l’ammazzare con un drone, o l’ammazzare sganciando una bomba da un aereo? Si può stabilire una morte peggiore tra tante?

È il delirio di uno USA che spende miliardi di dollari ogni anno per mantenere e allargare le sue basi militari in Italia, per poi far pagare a peso d’oro la sanità e l’istruzione dei propri cittadini.

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È il delirio dell’avere come migliore amico o come ragazza il proprio fucile. Del caschetto che ha una spilla della pace vicino alla scritta Born To Kill. Delle urla del Sergente Hartmann. Del cameratismo spietato. Dei pianti inascoltati. Della marcia di Topolino cantata da Marines ormai privi di qualsiasi tipo di sensibilità, anche alla paura. Del suicidio del Soldato Lawrence. Dello scontro tra sniper e soldati. Delle urla d’eccitazione durante gli spari.

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La follia della guerra, che rende la morte un business, non risparmia nessuno, come nessuno dovrebbe essere risparmiato dalla realtà che qualsiasi conflitto genera. In un’epoca in cui c’è bisogno d’immagini di schiere di bambini morti a causa di armi chimiche per risvegliare, almeno un minimo, le coscienze internazionali, perché ormai anche lo scoppio della bomba atomica non è abbastanza assordante, Full Metal Jacket, da ventisei anni a questa parte, non fa che proporre una realtà talmente cruda da non poterne sfuggire. Una realtà così cruda che si è dovuta esorcizzare con le risate per i nomignoli dati dal Sergente Hartman ai suoi soldati e “l’amore lungo lungo”. Ma in verità quelle scene non sono comiche, non fanno ridere.

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Full Metal Jacket è un film insopportabile e continuerà ad esserlo finché ciò che accade sullo schermo è esattamente la stessa cosa che sta accadendo in decine di altri Paesi nel mondo. Full Metal Jacket sarà insopportabile finché sarà onestà e non ricordo. Full Metal Jacket sarà insopportabile finché chi porterà la pace nel mondo sarà la stessa nazione che ha sganciato due bombe atomiche, ha abbattuto milioni di ettari di foreste e villaggi con cascate di Napalm, ha imposto dittature su nazioni che non gli competevano e commercia armi con gli stessi popoli contro cui combatte. Full Metal Jacket sarà insopportabile finché sarà un “mondo di merda”.

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