Manovre d’Europa

Letta e Hollande ci hanno provato, ma il bilaterale tenutosi a Roma dimostra ancora di più quanto Francia e Italia siano diventate dei pesi piuma nell’architettura europea che si regge quasi esclusivamente sul monotrave tedesco.

di Nicola Sessa, da Berlino

Sembravano, il primo ministro italiano e il presidente francese, quei personaggi di un film che, chiusi nello scantinato, si caricano l’un l’altro prima di un grosso colpo: fanno i loro piani ed escogitano la tattica senza tenere conto, però, degli imprevisti e del fatto che non potranno agire indisturbati.
I nostri, si immaginano un’Europa con un budget unitario – qualcosa di più ambizioso perfino dei famigerati Eurobond-, un fondo salva-stati, l’Esm, che ricapitalizzi direttamente le banche, un presidente permanente per l’Eurogruppo. Ipotesi, tranne l’ultima che gode dell’appoggio tedesco, che sono state “censurate” a neanche 24 ore dai saluti di rito. Il presidente dell’Eurogruppo Jeroel Dijsselbloem ha immediatamente escluso la possibilità di un budget europeo e la Germania considera una bestemmia la ricapitalizzazione delle banche con i soldi dell’Esm.

Per di più, l’Italia e la Francia devono fare i conti con i numeri interni. Parigi sta perdendo rapidamente il rango di attore comprimario dell’Unione per una questione di indicatori economici drammaticamente peggiorati nel corso degli ultimi mesi. L’Italia, si sa, deve far fronte a una crisi vastissima che va dal mercato del lavoro alla produzione industriale passando per la decadenza morale e politica.

lego

Dopo la bocciatura di Bruxelles sulla legge di stabilità, Roma deve trovare il modo di ripresentarsi con un piano adeguato per raggiungere gli obiettivi di bilancio, non superare l’asticella del deficit fissata al 3 percento, frenare l’emorragia del debito pubblico che è al 133 percento. In stile italiano, si è deciso ancora una volta per una soluzione provvisoria, una soluzione “una tantum” che intacca il patrimonio nazionale. Siccome questo governo, debolissimo, non è in grado di affrontare con concretezza il problema, Letta ha scelto la strada delle dismissioni: partecipazioni importanti – non in termini reali di quota, ma in termini strategici – di gioielli come Eni o Fincantieri saranno messi praticamente all’asta. Il tutto dovrebbe fruttare appena 10-12 miliardi di euro. Ma il problema si ripresenterà e prima o poi bisognerà dare fondo alle risorse: gli affaristi della finanza, ringraziano.

È paradossale come l’Italia pur trovandosi in una situazione leggermente migliore di altri paesi, si stia rivelando totalmente inadeguata e impacciata, priva di ogni capacità di iniziativa per uscire dal cul de sac in cui è finita.

Antonis Samaras, il premier greco, invece, è volato a Berlino per chiedere alla cancelliera Merkel una riduzione su tassi d’interesse e una dilazione dei tempi di pagamento. Si tratta di una mossa a sorpresa che è stata preceduta dalla presentazione in parlamento della legge finanziaria. Anche questo un gesto rivoluzionario, poiché non è stato atteso il parere favorevole e preventivo della troika. Un segno di stanchezza, un atto che rivendica una (seppur di facciata) libertà economica e finanziaria. La Grecia ad oggi perso il 25 percento della propria economia e il debito è prossimo al 190 percento.

L’Irlanda, che per tre anni ha fatto compagnia agli altri Piigs (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) sarà invece liberà del tutto già dal prossimo 15 dicembre quando scadrà e non sarà più rinnovato il piano di aiuti della troika. In quella data, infatti, Dublino chiuderà il programma da 80 miliardi di euro e ha già annunciato che non usufruirà di nessuna linea di credito. I tassi di interesse sui decennali sono scesi al 3,5 percento dal 15 percento di soli due anni fa e il tasso di disoccupazione inizia a segnare un’inversione di tendenza, scendendo al 12, 3 percento. Le cicatrici sono rimaste, però, ben evidenti: un welfare devastato, un indebitamento privato allarmante, una diaspora – soprattutto giovanile – verso altri paesi europei. Dublino riparte anche grazie a una favorevole politica fiscale nei confronti degli investitori (con un’imposta sul valore pari al 12 percento) e a una ferma resistenza contro Bruxelles che continua a chiedere di rivedere al rialzo l’aliquota tributaria.

A Lisbona, l’ex presidente Soares ha esortato governo e presidente della Repubblica a dimettersi per spezzare l’immobilismo che soffoca il Portogallo, per respingere la troika che nel paese lusitano si comporta come un re. L’unico modo, dice Soares, per evitare un’esplosione di violenza popolare che ribolle rumorosamente ai confini d’Europa.



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