Idfa 2013: Farewell to Hollywood

Sala uno del teatro Tuscinski, Amsterdam, Idfa 2013. Sono le dieci di sera e abbiamo scelto Farewell to Hollywood. Una ragazza malata di cancro con un regista ha scelto di documentare il suo calvario e morte. Il dibattito è aperto. 

da Amsterdam, Angelo Miotto

fotoidfa

Ha diciassette anni quando decide di girare un film sulla sua vita, malata di cancro, aiutata da un regista. Il suo nome è Regina, Reggie, Nicholson, lui si chiama Henry Corra.

La prima scena è un pugno nello stomaco: le ceneri di una ragazza che non abbiamo ancora visto, né imparato a conoscere, vengono prese da Henry Corra e portate sotto un grande albero con una altalena che guarda il mare. Scava una buca, le ripone, quindi la terra smossa viene calata con gesti emozionati e veloci. Terra lieve.

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Reggie è solare nelle prime inquadrature, niente viene risparmiato, dalle immagini della sua operazione, ai rapporti con la famiglia, con una madre molto presente, un padre che nel documentario appare distratto, avulso, senza nessuna familiarità con la figlia, che ha una grande passione: il cinema, Hollywood. Questo documentario, estremo, è stato scritto anche da lei, lo dice Henry Corra presente alla proiezione e ci tiene a precisare che Regina Nicholson è stata precisa e minuziosa nel dare indicazioni.

Per due ore il pubblico viene investito di immagini che raccontano dell’umorismo di Reggie, il suo conflitto con la famiglia, i viaggi in ospedale, le sedute di chemioterapia e le reazioni ai farmaci e alla chimica. Tutto documentato, telecamera in macchina, in casa, a seguire la ragazza. Il montaggio gioca con le immagini dei film preferiti di Reggie, da Pulp Fiction a Il Laureato, The Silence of the Lambs. Passano le settimane e il dolore aumenta nelle immagini, nel fisico distrutto, con momenti in cui la chemio si interrompe e c’è spazio per quello che piace fare a una ragazza di diciassette anni che sa di morire, parco giochi acquatico, un gruppo di amici – adulti – che le sta vicino quando i rapporti con la famiglia si deterioreranno fino alla rottura. Reggie legge, filmata, una lettera straziante di fronte a padre e madre, sulla soglia di casa, che non varcherà più, perché ormai vive in uno studio con ampie finestre insieme al regista, cosa che permette loro di avere più facilità nel filmare, nel lavorare insieme.

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Alla fine arriva la morte. Una mattina Regina smette di respirare. Il suo corpo senza vita è in primo piano, poi la camera riprende la mano del regista che le accarezza la testa, poi le telefonate per informare della morte.
Finale con montaggio delle immagini di Regina sorridente, quelle che avevamo trovato all’inizio del film, altre della sua malattia, ma con amici, quell’altalena sul mare, appesa a un albero dal tronco possente: due corde e per sedile dei rami intrecciati con una fune bianca e azzurra, mentre nella baia sono all’ancora diversi navigli.

Terminata la proiezione, una donna fra il pubblico prende il microfono e ringrazia Henry Corra, perché anche lei ha un tumore e una storia di paure e fragilità di fronte alla morte, lo abbraccia, piange. Ma restano alcune domande, alla fine di questo documentario. Difficile dire: mi è piaciuto. Oppure anche: è necessario, o utile. Forse si può dire che nel montaggio mancano le immagini dei due che decidono come realizzare questo film: avrebbero aiutato a capire di più il senso forte di questa ostinazione a volerlo girare.

Qui siamo di fronte a una scelta di un essere umano che decide di filmare la fine della sua vita, scrivendo un copione e consegnando alla visione di un pubblico il far conoscere la sua vita, i suoi problemi familiari, il dolore e il disfacimento materiale del corpo, la sua intimità di pensiero. Ma resta una domanda difficile, anche cinica o dura da scrivere, e cioè dove finisce la libertà di compiere questa operazione e quella dello spettatore, che non è chiamato a riflettere o reagire di fronte a una finzione, ma alla cruda realtà di una vita che si spegne e che martella i tuoi sensi per due ore fino a vedere un corpo senza vita.

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Non ho ancora una risposta, personale, a questa domanda. E forse anche la mia libertà di scriverla andrebbe a cozzare con quella di non doverla subire da parte di chi legge, in un caso del genere. Sarebbe un bel dibattito, ma guardandoci tutti negli occhi, anche la socialità virtuale in questi casi è insufficiente.

Mi resta in testa questa domanda, anche dopo la notte. Mi sono svegliato e fra le cose che dovevo fare per proseguire questa passeggiata fra i documentari di Idfa, mi è tornata di colpo l’immagine di Regina sorridente. Forse al di là di un dibattito razionale è quel che mi è restato, al di là del suo scopo o di quello del regista. Un’immagine sorridente, nonostante due ore di molto dolore buttato negli occhi del pubblico.

 

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