Colpirsi forte è fondamentale

 

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Sono passati almeno 10 anni dall’uscita di ognuno dei film che rivisiteremo in questo spazio, eppure, nel bene o nel male, nulla pare essere cambiato. Pare che le tematiche siano più attuali del previsto. Dunque, si ripropongono, proprio come i peperoni. Speriamo solo di digerirli il prima possibile[/note]

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/07/Schermata-2013-07-12-alle-14.20.02.png[/author_image] [author_info]Alice Bellini. Scrittrice, si laurea in cinematografia tra Londra e New York. Non è una critica di nulla, ma le piace dire la sua, sapendo che, comunque, la risposta a tutto è inevitabilmente 42.[/author_info] [/author]

27 novembre 2013 – Nel 1999 uscì un film che divenne a suo modo non dico il manifesto di una generazione, ma senz’altro un forte punto di riferimento. Un film che nella storia del cinema, tra altri 20 anni, diventerà un classico. Un film che ha sempre messo d’accordo tutti in quanto a ‘capolavoro’. Un film che, più unicamente che raramente, rende meglio del romanzo da cui è tratto.

Fight Club: regia sublime, cast eccezionale, sceneggiatura davvero mindblowing, come dicono gli inglesi – da far scoppiare la testa. Chuck Palahniuk aveva già fatto un grande lavoro con il suo romanzo, ma la capacità di David Fincher di rendere e comunicare tutto ciò che lo compone è assolutamente sbalorditiva. 139 minuti di nevrosi. Di una violenza non violenza, celebrata e al contempo criticata, che finisce per trarre in inganno tutti coloro che l’approvano.

Un po’ come il mondo in cui ci muoviamo e viviamo e lavoriamo e mangiamo e odiamo e amiamo e preghiamo e ci divertiamo e ci annoiamo tutti i giorni. Un mondo che ci ha insegnato a seguire le sue regole con la promessa di un successo che invece, più si insegue, più c’ingannerà.

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La capacità di questa pellicola di parlare allo spettatore è rara, con le sue frasi a effetto, magari un po’ sensazionaliste, ma senza risultare ridondanti o didascaliche. Con le sue verità snocciolate come la lista di una spesa. Con un finale che non può fare altro che sbalordire e dimostrare come spesso tutto ciò a cui crediamo non esiste, è una finzione, qualcosa di così ben architettato che neanche noi stessi sappiamo più come uscirne e da cui l’unica cosa che può salvarci è un atto di estremo coraggio, dettato da una razionalità gelida e spietata, ma necessaria e che troppo spesso viene confusa con l’intransigenza, l’imposizione e la rigidità e che, invece, è solo coerenza.

Fincher ha fatto un lavoro a dir poco egregio nella sua capacità di distaccarsi dal romanzo, senza però rinnegarlo, o stravolgerlo. Le pagine di Palahaniuk si respirano durante tutta la pellicola, a prova di un perfetto connubio tra rispetto e esigenza cinematografica.

Ad ogni modo, quello che mi ha sempre colpito di Fight Club è la scelta di lasciare un unico spezzone profondamente letterario, con l’unico scopo di trasmettere le stesse parole del libro e il loro messaggio. Un’unica scena, assolutamente priva di finalità narrativa, eppure così necessaria a trasmettere un messaggio che non è per forza giusto, ma assolutamente fondamentale. La chiave di volta, come al solito, sta nell’interpretazione che gli si vuole dare. La scena è quella che segue.

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Lo scopo del Fight Club? Tornare tutti a zero. Liberarsi dalle cose che un tempo possedevamo e che adesso possiedono noi. Annullare la conoscenza di cos’è un piumino. Lasciare che le cose vadano come devono andare. Essere presenti. Anche al proprio dolore. Soprattutto al proprio dolore. Annullare la distrazione. Perdere tutto, per poter essere di nuovo liberi di essere qualsiasi cosa. Ricominciare dalla cenere, ricordandosi che cenere ridiventeremo tutti.

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Mi ricordo che la prima volta che lo vidi ero ancora una bambina. E mi folgorò. Fu una specie di risveglio, perché a volte, purtroppo, in questo mondo ad alte frequenze e isterismi, gli estremismi sono il modo più sicuro di farsi sentire. Sicuramente, che lo fece nella maniera giusta o meno, incentivò la mia rabbia nei confronti di quello che mi circondava. Ero sempre stata un po’ restia alle bambine che a 10 anni si atteggiavano a donnine ormai sviluppate, al fatto che per avere degli amichetti dovevi stare al passo coi tempi o eri uno sfigato, al fatto che se non possedevi una determinata cosa non eri nessuno. Non mi quadrava. Non mi sembrava logico che fossero le cose che avevo o il mio aspetto fisico a determinare il mio valore e quanto le persone fossero disposte ad accettarmi e includermi. Quanto fosse divertente giocare con me a nascondino, o quanto valessero la mia amicizia e le mie barzellette. Per cui un film come Fight Club mi parlò chiaro e mi parlò dritto. Mi svegliò, senza darmi neanche la possibilità di poltrire a letto un secondo di più.

Ad oggi, ovviamente, non credo che la soluzione sia ritornare tutti allo stato di cavernicoli. Non penso che la violenza sia un valido sfogo. Non penso gli estremismi servano mai a qualcosa di utile. Credo solo che, però, sia bene ricordarsi chi ha creato che cosa. Da dove vengono tutte le cose che possediamo e mangiamo, tutti i lavori che facciamo, le gerarchie, i poteri, le istituzioni. Nell’Internazionale di un paio di settimane fa John Lancaster riportava le parole di Andrew Haldane, il responsabile della stabilità finanziaria della Banca d’Inghilterra, che parlava di sovranità popolare: “c’è una differenza fondamentale tra la situazione di oggi e il medioevo. Allora il rischio maggiore per le banche veniva dai sovrani. Oggi, probabilmente, il rischio maggiore per la sovranità viene dalle banche. Il rapporto si è invertito”. Il rapporto, direi io, abbiamo lasciato che s’invertisse noi. Perché quel rapporto siamo stati noi a crearlo.

Non credo la soluzione sia quella di ritornare a zero, distruggere tutto, ammazzare di botte: l’anarchia è un estremismo, come tale non porterebbe a nulla, se non a un insopportabile livello di egoismo. La soluzione è, piuttosto, la consapevolezza. Perché se si è consapevoli di ciò che si può fare, allora si è consapevoli anche di ciò che si può cambiare. Si è anche consapevoli che dipende da noi. Che se abbiamo le energie per creare cose negative, allora abbiamo anche altrettante energie per crearne di positive.

Così, Fight Club sarà forse più sensazionalista del dovuto, con il suo modo molto americano di dire le cose, ma in una realtà in stato sempre più comatoso e catatonico come la nostra, colpire, ma soprattutto colpirsi più forte che si può è fondamentale.



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