Polvere dell’India – puntata 4

Il governo indiano e l’Italia: storie di armi, tangenti e faccendieri

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/06/foto-tessera.jpg[/author_image] [author_info]di Alessandro Ingaria, dall’India. Vivente. Laureato in giurisprudenza, con un passato di consulente gestionale per imprese profit e non, nel 2008 inizia una rivoluzione esistenziale: da cittadino del mondo, lavora in Afghanistan, in Latino America e in Est Europa, sperimentando soluzioni biopolitiche innovative sulla tematica dei diritti umani. Intensa l’attività creativa, da autore di articoli per riviste e periodici online (tra cui Peacereporter) a ideatore di progetti audiovisivi sull’analisi complessa delle comunità umane odierne. E’ uno dei fondatori del movimento Geronimo Carbonò. www.geronimocarbono.org[/author_info] [/author]

3 dicembre 2013 – La fortezza di Janjira era inespugnabile. Per duecento anni i Siddi hanno difeso le sue mura dagli attacchi portoghesi, inglesi e marathi. I Siddi sono i discendenti del popolo Bantu che, dal sud-est dell’Africa, sono stati deportati come schiavi nel subcontinente indiano dai mercanti arabi e portoghesi. Attualmente la loro comunità è stimata tra i 20mila e i 55mila individui tra il nord dell’India e la zona di Karachi in Pakistan.

Trovarsi nel mezzo del mare in una fortezza più grande del Colosseo è un’esperienza che riporta indietro nel tempo, che assegna un nome e una storia ad ogni pietra, che ancora stilla sangue di mille combattimenti. Mi lascio trasportare dal fascino del passato, immaginando la vita tra quelle mura, con la costa alle spalle e l’oceano indiano in fronte. Come spesso accade, qualcuno intraprende una conversazione in ragione del tuo apparire straniero, riportandoti alla realtà di oggi.

Superati i convenevoli – da dove vieni, che fai qui – il discorso, come quotidianamente capita agli italiani in India, s’incastra su Sonia Gandhi, al secolo Antonia Edvige Albina Maino, nativa di Lusiana, nel vicentino. E, dopo aver nominato l’attuale presidente del Congresso Nazionale Indiano, il mio affabile interlocutore ha insistito parecchio nel volermi spiegare chi fosse Ottavio Quattrocchi. Un personaggio pressoché sconosciuto in Italia, ma molto noto in India, e ritornato sui principali giornali indiani dopo la sua morte nel luglio del 2013.

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Quattrocchi, rappresentante della Snamprogetti, società del gruppo Eni, rimase invischiato nell’inchiesta Bofors. L’indagine fece emergere un giro di tangenti per la vendita di materiale bellico da un’azienda svedese all’esercito indiano, con la presunta corruzione del primo ministro Rajiv Gandhi, con il tramite della moglie italiana, molto prossima al rappresentante Snamprogetti. Il dibattito sulla colpevolezza dell’italiano e della famiglia Gandhi e le relative battaglie legali durarono circa venticinque anni culminando nel classico nulla di fatto.

Come molte analoghe vicende in Italia, l’azione penale non giunse a nulla, ma un tribunale amministrativo, incaricato di combattere l’evasione fiscale, riuscì ad accertare il ruolo di Quattrocchi nell’illecita mediazione, rintracciando 410 milioni di rupie non dichiarate al fisco. Nello stesso periodo, prima dello scandalo, Snamprogetti otteneva circa sessanta contratti, tramite analoghi metodi corruttivi, secondo alcune inchieste giornalistiche dell’epoca.

Pochi giorni fa il governo indiano ha annullato un contratto da 560 milioni di euro con la società Augusta, controllata di Finmeccanica. La corruzione alla base della disdetta del contratto ha portato in carcere, nel febbraio 2013, il Presidente Giuseppe Orsi, con l’accusa di corruzione internazionale. Dallo scandalo Bofors del 1987, che includeva italiani, indiani, aziende pubbliche italiane e macchine da guerra, allo scandalo Augusta Finmeccanica del 2013 sono trascorsi ventisei anni. Nel mezzo sono passate migliaia di inchieste per corruzione e alcune guerre che hanno visto partecipare anche l’Italia, con accuse da parte degli alleati Nato di pagare gli insorgenti iracheni (e forse anche afghani) per non farsi attaccare.

Quel che non è cambiato è la stretta connessione tra forniture belliche e tangenti. Ventisei anni non sono stati sufficienti a spezzare questo connubio fatale di armi, mazzette e soldi sempre più sporchi. Ad indignarsi sono rimasti in pochi, costretti a sentire storie di vent’anni prima, incredibilmente uguali a quelle di oggi. Ad indignarsi è solo più la coscienza di chi è consapevole che il mercato della armi è il mercato dei fondi illeciti, dove raramente i prodotti hanno prezzi tracciabili e controllabili e le decisioni vengono giustificate con appelli a “questioni di sicurezza nazionale”. Ieri si chiamavano Bofors 155 mm, oggi elicotteri AW-101, domani F35 o chissà quale altra sigla. La storia, una volta ancora, resta lì, austera, ad insegnare. E l’opinione pubblica, imberbe, ad indignarsi, impegnarsi e gettare la spugna. Con gran dignità.



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