È tempo di morire

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Sono passati almeno 10 anni dall’uscita di ognuno dei film che rivisiteremo in questo spazio, eppure, nel bene o nel male, nulla pare essere cambiato. Pare che le tematiche siano più attuali del previsto. Dunque, si ripropongono, proprio come i peperoni. Speriamo solo di digerirli il prima possibile[/note]

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/07/Schermata-2013-07-12-alle-14.20.02.png[/author_image] [author_info]Alice Bellini. Scrittrice, si laurea in cinematografia tra Londra e New York. Non è una critica di nulla, ma le piace dire la sua, sapendo che, comunque, la risposta a tutto è inevitabilmente 42.[/author_info] [/author]

4 dicembre 2013 – 2019. Los Angeles. Dopo aver sviluppato i Replicanti, robot identici in tutto e per tutto agli esseri umani, la Tyrell Corporation ne acuì la forza e l’intelligenza, sviluppandoli fino all’estremo livello: Nexus 6. A quel punto, ne fece degli schiavi nelle colonie dell’Extra-Mondo, delle cavie, degli strumenti. Ma non si può creare qualcosa e poi pretendere di averne il totale controllo. Quando si genera qualcosa, qualunque cosa, bisogna farlo con la consapevolezza che potrebbe evolvere a prescindere dal suo creatore, che potrebbe avere conseguenze diverse da quelle considerate. Anzi, che sicuramente lo farà. Così, sanguinoso e incontrollabile, presto arrivò l’ammutinamento di una squadra di Replicanti Nexus 6, alla ricerca di libertà e dignità. A quel punto, i Replicanti furono resi illegali sulla Terra – pena, la morte. Gli uomini etichettarono come pericoloso e nocivo ciò che loro stessi avevano creato. Organizzarono squadre speciali di polizia e gli diedero l’ordine di uccidere ogni Replicante fuggito, nascosto, incontrollato. Non era repressione, era pensionamento: dopo una vita crudele, una morte bestiale. Le squadre di polizia vennero chiamate Unità Blade Runner.

Futuristico? Forse negli scenari, magari nei nomi, nelle ambientazioni, in qualche altro particolare. Nella superficie, sicuramente. Ma nella sostanza, Blade Runner è un Peperone d’eccellenza, che racchiude lo spirito più puro, nudo e crudo della nostra epoca, sfociata nel consumismo spietato, per poi abbracciare uno sfruttamento incontrollato di ogni risorsa anche solo pensabile.

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Se lo scioglimento dei ghiacci, o il buco dell’ozono sono concetti troppo vaghi per allarmare, forse le Filippine, lo Tsunami del 2004, Fukushima, o anche una più “piccola” inondazione Sarda di fine Novembre permettono di percepire più drasticamente a cosa sta portando l’abitudine sempre più forsennata dell’uomo di creare, modificare, alterare o eliminare a livelli impensabili elementi, cose e esseri di ogni genere, perdendone poi il controllo, ma pretendendo che comunque non gli si rivoltino contro. Stupendosi se ciò accade. In tal caso, parte una repressione accanita e altrettanto innaturale, che va a forzare ancora di più la forzatura stessa.

Nel 1982 Ridley Scott immortala in maniera magistrale questo spirito così disumano, questa realtà doppiamente alterata, questa mania d’onnipotenza che porta l’uomo a voler tutto a sua immagine e somiglianza. Ma quell’immagine e quella somiglianza sono impazzite, isteriche, ormai snaturate, nel delirio di un’immortalità e un’invincibilità non solo impossibili, ma anche improbabili. Perché c’è una cosa che accomuna tutto su questa Terra e sempre lo farà: la fine.

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Ispirandosi al celeberrimo romanzo di Philip K. Dick Il cacciatore di androidi (Do Androids Dream of Electric Sheep?), quello che Ridley Scott dirige è un gioiello della storia del cinema, una vera opera d’arte, manifesto del post-modernismo cinematografico, nel suo creare una perfetta armonia tra estrema ricerca estetica e profondo significato umano-filosofico. Scott tratta ogni fotogramma come un piccolo capolavoro a sé stante, impreziosito dalla fotografia di Jordan Cronenweth, le musiche (ormai cult) di Vangelis e un cast d’eccezione, da un Harrison Ford reduce di un indiscutibile Han Solo, a un algido Rutger Hauer, passato alla storia con il suo memorabile monologo, ma anche un’impeccabile Daryl Hannah, nella folle debolezza della sua Pris, e un altrettanto toccante Sean Young, che ha rappresentato la sua Rachel con mistero e bellezza.

Rapportandolo all’anno a cui appartiene, la quasi perfezione che Blade Runner sprigiona è indiscutibile e lo rende da ormai da trent’anni a questa parte uno dei capisaldi di tutta la produzione artistica del Novecento. Parla alla fantasia, parla alla mente, parla al cuore. Sa emozionare e coinvolgere, senza però smettere di far riflettere.

Roy Batty, uno dei personaggi meglio riusciti della storia del cinema, con le sue mille e coerentissime sfaccettature, incarna in maniera paradossale l’umanità in tutta la sua freddezza, ma anche giustezza. Nella durezza del suo spirito martoriato. Nella capacità di farsi toccare dalle cose. Nella sua follia controllata, figlia del dolore e del sopruso. E alla fine il dubbio rimane, se sia davvero lui l’antagonista, se sia davvero meno umano di un Deckard, o di un Gaff, così spietati, così capaci d’uccidere sotto comando, ormai insensibili alla realtà che li circonda e all’ingiustizia che tutto impregna. Tant’è che poi a rimanere è anche un altro, di dubbio: sarà mica un mondo di soli Replicanti, o quasi, aizzati inconsapevoli l’uno contro l’altro in base al volere di una manciata d’individui imperscrutabili? Ma allora, chi è il vero cattivo?

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Nella lotta tra Blade Runners e Replicanti, la domanda resta fissa, la riflessione tonante, anche a trent’anni di distanza: arriverà mai il momento in cui ci prenderemo la responsabilità delle nostre azioni e cercheremo di porre rimedio, invece che fare la carità e gridare sconvolti al disastro ambientale? Arriverà mai il momento che smetteremo di voler essere infiniti e invincibili? Ma soprattutto, arriverà mai il momento in cui capiremo che creare, che sia un oggetto, un figlio o uno stile di vita, è un atto d’amore e non una mania di grandezza?



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