Quel che resta di Arafat

Ipotesi e smentite sull’avvelenamento non cambiano la situazione dei palestinesi, dimenticati dalla comunità internazionale

di Christian Elia

6 dicembre 2013 – I tecnici francesi, al contrario di quelli svizzeri, non ritengono credibile la tesi dell’avvelenamento di Yasser Arafat, una vita da leader dei palestinesi. L’11 novembre 2004, a Parigi, ‘’Arafat morì per cause naturali”, sostengono gli ultimi ad averne analizzato i resti.

Secondo l’altra equipe, quella svizzera, invece le analisi della salma avrebbe dato risultati che sarebbero compatibili con l’avvelenamento dal plutonio 210. Si tratta di campioni prelevati nel novembre 2012, molti anni dopo la morte, ritenendo un’accurata autopsia troppo rischiosa nell’immediatezza della morte, divise adesso tra tre equipe differenti: svizzeri, francesi e russi, che non si sono ancora pronunciati.

Israele, tramite il ministero degli Esteri, ostenta sicurezza, ribadendo che nessuno ha avvelenato Arafat. L’Autorità Nazionale Palestinese, promette chiarezza, ma in patria sono in molti a ritenerli coinvolti nella morte del leader, infine la moglie, Suha, che ha sempre accusato gli ex compagni, chiede giustizia.

IL DISCORSO DI ARAFAT ALL’ONU, NEL 1974, RICORDATO COME QUELLO DELL’ULIVO O DELLA PISTOLA

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E’ probabile che una parola certa, sulla vicenda, non verrà mai scritta. Perché non conviene a nessuno, perché Arafat è ingombrante per chi dovrebbe spiegare, utile per chi lo vuole utilizzare, magari per distogliere l’attenzione da altro. Quello che diventa più importante, alla fine, dopo otto anni dalla sua morte, è cosa resta del suo sogno: lo stato di Palestina.

Il sogno di un uomo, il sogno di un popolo. Un sogno che ha solide, quanto disattese e umiliate, basi giuridiche. Un diritto che diventa sogno, in un inaccettabile slittamento semantico, una mutazione di destinazione d’uso, fraudolenta e sanguinosa.

Se Arafat fosse stato assassinato, sarebbe gravissimo. Ma lo sarebbe molto di più di quello che ha subito da vivo? Lo stesso uomo fotografato con Rabin, benedetti dal presidente Usa Bill Clinton, mentre veniva blandito con il premio Nobel per la pace per aver sottoscritto gli accordi di Oslo, nel 1993, che ormai dopo venti anni hanno palesato tutti i loro limiti. Lo stesso uomo prima terrorista, poi statista, poi di nuovo terrorista.

NEL 1982 DURANTE L’INVASIONE ISRAELIANA IN LIBANO, ARAFAT E I VERTICI DELL’OLP LASCIANO BEIRUT PER RIPARARE IN TUNISIA

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Abbandonato tra quattro mura della Muqata, la sua residenza di Ramallah, in Cisgiordania, mentre il governo israeliano del criminale di guerra Ariel Sharon lo assediava durante la seconda intifada, dal 2000. Portato via in elicottero, ormai vicino alla morte, verso un ospedale militare a Parigi. L’uomo che per 40 anni era stato il volto e la voce dei palestinesi del mondo, venne lasciato prigioniero dell’abuso e della violenza. Non basta questo per condannare tanti?

Condannare l’Unione europea, gli Stati Uniti, l’Onu, i venditori di diritti umani a rate e a puntate, i difensori del diritto internazionale a progetto, le cancellerie diplomatiche e i parlamenti. La condanna più grave: l’ignavia. Quella di aver voltato le spalle ad Arafat e ai palestinesi.

Quel mondo, dieci anni fa, era assetato di sangue. Dopo l’attacco alle Torri Gemelle di New York, molti lupi sentirono l’odore della vittima e si scatenarono. Putin in Cecenia, Sharon in Palestina. Sono arabi, sono musulmani, non c’è da fidarsi. E in modo ignobile tutto questo è stato permesso. Le truppe di Sharon massacrarono migliaia di palestinesi, che reagirono con la forza, al contrario della prima intifada, la più grande manifestazione di creatività mai vista.

1993, SIGLATI I COSIDDETTI ACCORDI DI OSLO, CON LA MEDIAZIONE DI CLINTON

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Un errore? C’erano alternative? In molti saltarono su, pronti all’uso, a imbrattare fogli di giornale e televisioni: bisogna chiudere i conti con i terroristi. Va bene bombardare l’Afghanistan, invadere l’Iraq. Ma non finiva là: altrove c’erano lupi che potevano finalmente scatenarsi, contando sull’ignavia del mondo.

Questo resta di Arafat: il monito. A quella politica internazionale molle e colpevole, che sceglie i suoi interlocutori in base alla convenienza, mai in base al criterio di giustizia. Perché morto Arafat, avvelenato o meno, è morta anche la questione palestinese, scivolata via nell’indifferenza del mondo.

Cosa aggiungerebbe l’avvelenamento di Arafat alle migliaia di esecuzioni extragiudiziali che Israele ha commesso in Palestina e all’estero, di palestinesi come di militanti in Libano o in Siria, fino a Dubai, e sempre più spesso in Iran?

I FUNERALI DI ARAFAT

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Concedere a un governo, che si vanta di essere l’unica democrazia del Medio Oriente, un’immunità permanente, rende vuota qualsiasi pronuncia della ‘comunità internazionale’.

Cosa aggiungerebbe alla causa dei palestinesi, scacciati dalle loro case, arrestati senza processo, uccisi impunemente, sapere che il loro leader è stato assasinato? Magari l’emergere di qualche complice all’interno della stessa Anp? I palestinesi, per chi cammina quelle terre, sanno perfettamente le colpe dell’Anp. Gli basta vedere le loro belle case a Ramallah per sapere che sono colpevoli di tradimento. L’avvelenamento non laverebbe neanche le colpe di Arafat, che ci sono e sono tante, ma quale leader mondiale sarebbe stato trattato così? Quale leader internazionale sarebbe finito sotto assedio, senza che nessuno battesse un colpo?

L’unico modo per restituire giustizia ai palestinesi è l’imposizione del diritto internazionale, la liberazione dei prigionieri politici, la libertà di scegliersi i loro leader senza incappare negli embarghi politici ed economici, il ritorno dei profughi, il controllo delle sue finanze e delle sue frontiere. Tutto il resto non salverà né la vita dei palestinesi né la coscienza dei colpevoli.



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