Il gusto dei pistacchi

Storia di Veria, curdo iraniano, in fuga da una persecuzione che ha portato lui e i suoi affetti, con i suoi ricordi, al riparo a Bolzano

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/11/431156_3229757659671_579661324_n.jpg[/author_image] [author_info]di Camilla Preziati. Scrittrice alle prime armi e organizzatrice di eventi culturali. Ha molti pallini ma non per colpa di lavatrici sbagliate: le lingue e le culture straniere, la danza, i libri, la cucina e la voglia di imparare, di tutto e da tutti[/author_info] [/author]

Ho fatto un viaggio in un paese lontano senza mai muovermi da casa mia e mi è stato possibile solo grazie alle sue parole.

La voce è ferma ma la mano trema mentre disegna su un foglietto la gerarchia del PDKI, il Partito Democratico del Kurdistan Iraniano. Dopo un mese che lo conosco, Veria ha voluto raccontarmi la sua storia partendo dal periodo di detenzione di qualche anno fa fino alla fuga e all’arrivo a Bolzano. Curioso che sia approdato in una regione che, come quella da cui proviene, anche se in maniera diversa, rivendica la sua autonomia.

La sua vita e quella di sua moglie Havin in soli cinque giorni sono state completamente stravolte. Io, in solo un’ora, sono stata trasportata in una realtà che pensavo essere troppo distante da raggiungere anche solo col pensiero.

Veria è membro del PDKI, partito socialista democratico facente parte dell’Internazionale Socialista che si batte per il riconoscimento del Kurdistan e del popolo curdo da parte del regime Iraniano. Obiettivo non facile considerata la dittatura della Repubblica Islamica presente nel paese dal 1979 e diventata ancora più severa dopo la guerra con l’Iraq negli anni Ottanta.

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Qualche anno fa Veria attraversa la frontiera Iraq-Iran in autobus di ritorno da un incontro con i vertici del partito. Porta con sé una valigia piena di documenti, cd e file riguardanti l’attività propagandistica del partito che per precauzione decide di mettere nel bagagliaio del veicolo insieme a quelle di tutti gli altri passeggeri. L’autobus viene fermato al posto di blocco per una delle consuete ispezioni a campione. Dentro la valigia non c’è niente di personale che possa ricollegare l’appartenenza di quel bagaglio a Veria, ma l’autista lo indica come il probabile proprietario e Veria finisce dritto in prigione.

Tre mesi trascorsi in una cella di 4mq per essere quasi ogni giorno bendato, portato in una camera di tortura e costretto a confessare a suon di frustate. Ma Veria non parla e viene infine mandato a casa per poter trascorrere il periodo del Ramadan in famiglia – così giustificano il rilascio gli ufficiali da buon credenti. E Veria non è nemmeno musulmano. Viene però anche avvisato di aspettarsi una visita da lì a tre giorni. La visita non verrà mai effettuata. Veria si sposa e mette in piedi una propria impresa con la moglie. Trascorre così un anno, tempo canonico di inattività politica fissato dal PDKI per i membri che vengono arrestati.

A questo punto Veria viene ricontattato dal Partito stesso che, saputa della sua coraggiosa prova di resistenza, lo promuove al secondo livello della struttura, ossia il ruolo più importante dopo i capi di Partito. Veria può a sua volta scegliere due persone di fiducia a lui sottoposte senza però rivelare all’uno l’identità dell’altro. Questi a loro volta possono scegliere due uomini di fiducia ciascuno e così via, andando a definire una struttura ad albero.

I due sottoposti di Veria conoscono solo lui e ovviamente tutta la rete di persone che gli sottostà, ma non verranno mai a conoscenza né dell’altro uomo di fiducia di Veria né dei capi di Partito. Circa due anni fa uno dei due sottoposti di Veria viene arrestato: una metà dell’”albero” è salva ma lui si ritrova in pericolo. Secondo le regole interne al partito colui che viene catturato può e deve rivelare il nome del proprio superiore solo dopo che sono trascorse un numero prestabilito di ore, per permettere ad eventuali persone collegate  di allontanarsi. Dall’arrestato la polizia riuscirebbe ad avere al massimo il nome di Veria, ma da Veria stesso si potrebbe risalire direttamente ai vertici del Partito segnando così l’inizio della fine.

Veria si rifugia con la moglie per 5 giorni in un paese vicino a quello in cui risiede per poi attraversare il confine con la Turchia. Dopo 25 giorni si sposta verso la Grecia restando nascosto tre giorni in un bosco  lungo il confine fino a che non viene organizzata la fuga verso il primo paese UE di questo viaggio. In terra ellenica trascorre un mese stipato in una stanza buia con altre 80 persone senza mai uscire o vedere la luce e ricevendo le visite di un medico attraverso le sbarre di una finestra.

Il racconto si interrompe per un attimo. “Non tornerò mai più in Grecia in vita mia”  dice Havin “Dopo come ci hanno trattato…”.

Trascorso questo periodo si ritorna nuovamente in Turchia da dove un trafficante organizza il passaggio in camion verso la Germania. L’autista, forse in vena di scherzi, lascia Veria e Havin a Chiusa, piccolo paese tra Bolzano e Bressanone, esclamando “Ma si, qui siamo in Germania!”.

Da questo momento inizia la vita italiana di due rifugiati politici a Bolzano. Tanti sforzi per imparare non una ma ben due lingue, per cercare un lavoro che possa anche un poco ricompensare gli studi e l’esperienza di un ingegnere civile e un architetto e per trovare una casa senza al momento ricorrere a nessun aiuto da parte dell’Istituto per l’Edilizia Popolare.

“Qualche volta mi chiedo perché la mia vita sia cambiata così all’improvviso. Mi rispondo che non volevo vivere di bugie, non volevo aspettare senza poter urlare, senza vedere e poter dire la verità. Non volevo vivere nel silenzio. Ho visto i miei amici morire davanti ai miei occhi, solo perché volevano la democrazia. Sono stati uccisi senza un motivo, solo perché volevano sapere, perché volevano la libertà. L’unico modo per combattere questo regime è tirare fuori la gente dal buio, dall’ignoranza”.



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