Polvere dell’India – puntata 5

Un paese spirituale non è per forza anche tollerante: la tensione tra hindu e musulmani da un punto di vista particolare

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/06/foto-tessera.jpg[/author_image] [author_info]di Alessandro Ingaria, da Ahmedabad (Gujarat), India. Vivente. Laureato in giurisprudenza, con un passato di consulente gestionale per imprese profit e non, nel 2008 inizia una rivoluzione esistenziale: da cittadino del mondo, lavora in Afghanistan, in Latino America e in Est Europa, sperimentando soluzioni biopolitiche innovative sulla tematica dei diritti umani. Intensa l’attività creativa, da autore di articoli per riviste e periodici online (tra cui Peacereporter) a ideatore di progetti audiovisivi sull’analisi complessa delle comunità umane odierne. E’ uno dei fondatori del movimento Geronimo Carbonò. www.geronimocarbono.org[/author_info] [/author]

9 dicembre 2013 – L’India è una bambina partorita sul ciglio di una strada, circondata di placenta sudicia e di un cordone ombelicale insanguinato, che ancora la connette alla sua madre coloniale. La polvere raggruma gli umori, essiccati da un sole troppo avido di nuvole. Ed in mezzo a questo, due splendidi e dolci occhi. Perché il Paese, quello autentico, nascosto, è riflesso negli occhi delle persone. Milioni di occhi vivaci, vitali, sempre in movimento. Nel traffico infernale, nel dedalo di apparente non senso, si incrociano mille sguardi. Occhi sfuggevoli ma intensi, che spesso emergono da vestiti che tentano di coprire ogni fattezza umana. Durante le conversazioni, la testa degli indiani dondola, ma gli occhi, di mille sfumature di terra e di cenere, restano fermi sull’interlocutore.

Un Paese largo duemila chilometri, che vive nello stesso fuso orario, è costantemente sull’orlo di distrarsi, dimenticare il tempo, sbagliare rotta. E’ impressionante il miscuglio di religioni: si può ricevere un sorriso di un hare  kṛṣṇa alle otto del mattino, incrociare un muezzin in un vicoletto pochi minuti dopo e sedersi sotto un immagine di Gesù Cristo, ad osservare le mucche che pascolano plastica, alle otto e sedici. Questo mélange è l’orgoglio e il patimento di una nazione nata dal dissolvimento di una  madre coloniale, che incorporava anche gli attuali Pakistan e Bangladesh. C’è da chiedersi cosa li tenga uniti e cosa li divida, inseguendo quella parola che spesso ho sentito pronunciare in questi giorni: identità. L’identità di questa bambina ormai ultrasessantenne.

Per capirci qualcosa mi sono rivolto ad un ebreo indiano, che vive in Ahmedabad, con in mente una data precisa: il ventisette febbraio 2002. Faccio un passo indietro. La data è quella, ma le radici sono lontane, intorno al quindicesimo secolo, quando viene costruita una moschea ad Ayodhya, nell’attuale Uttar Pradesh.  Per lungo tempo non si  sa quel che accade laggiù. Risale infatti al 1853 la prima documentazione relativa al conflitto tra hindu e musulmani per la rivendicazione dell’edificio. La moschea in questione, secondo i primi, era stata edificata su un preesistente tempio hindu.

Le foto sono relative agli scontri avvenuti a Muzaffarnagar nell’agosto e settembre 2013

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Le tensioni sono state gestite dagli inglesi durante il periodo coloniale, ma le dispute sul luogo sacro alle due comunità covano nelle braci per decenni, esplodendo in fiammata il sei dicembre 1992. Quel giorno, una cerimonia religiosa degenerò in attacco violento da parte di migliaia di persone, e causò la distruzione totale della moschea. La contesa si estese in tutta l’India provocando scontri violenti che causarono circa millecinquecento morti.

Dopo il fuoco, le braci per un altro decennio. Il ventisette febbraio 2002, un treno di attivisti hindu, in viaggio da Ayodhya ad Ahmedabad, subisce un attentato e nell’incendio delle carrozze muoiono cinquantotto persone. Anche qui le fiamme riappaiono violente. In una caccia all’uomo, scatenata contro la comunità musulmana, muoiono tra le millecinquecento e le duemilacinquecento persone, in prevalenza musulmane. E un’altra volta, dopo aver divampato, i fuochi tornano ad essere brace.

Ventisette agosto 2013, Muzaffarnagar, Uttar Pradesh. Muoiono, nell’ordine, un musulmano per mano di due jat e pochi giorni dopo, per vendetta, i due assassini. Nelle settimane successive, gli scontri tra hindu jat e musulmani provocano circa cinquanta vittime, centinaia di feriti, l’intervento di circa quattordicimila agenti tra esercito e polizia, che hanno arrestato circa dodicimila persone. Dalle non facili ricostruzioni, sembra che l’episodio scatenante siano state le avance di un ragazzo musulmano ad una ragazza hindu jat.

Robin David scrive per il Times of India ed è noto per essere l’autore del libro “The city of fear”, sulle violenze del febbraio 2002. Appartiene, culturalmente più che religiosamente, alla comunità dei Bene Israel, quattromila persone in tutto il subcontinente. Raheel Dhattiwala, sua moglie, proviene dalla comunità dei Sunni Bohra, una componente del variegato mondo musulmano, che in occidente si fatica a comprendere.

Robin conosce bene l’argomento e sono sufficienti poche domande per innescare un flusso di parole. “Per me gli scontri tra hindu e musulmani sono stati un punto di demarcazione personale. In un momento in cui tutti erano convinti delle proprie ragioni e difendevano il diritto alla violenza della propria fazione, per me è stato duro capire chi fossi. Sino alla sommossa del 2002, non mi ero chiaramente posto il problema della mia identità. Per me è stato un momento cruciale, in cui ho capito di essere differente. Non tanto l’essere ebreo in mezzo ad amici hindu e musulmani, ma essere appartenente ad una minoranza. Ho preso coscienza di essere uno dei pochi che parlava contro la violenza e contro Narendra Modi che la istigava [Modi è il primo ministro dello stato del Gujarat e candidato alla guida dell’India alle prossime elezioni per il partito nazionalista hindu n.d.r.].

In quel momento mi sono reso conto di essere differente, e non per il mio essere ebreo ma perché sono un liberale. Sino ad allora nessuno mi aveva chiesto: ‘Chi sei tu?’. Dopo il 2002 hanno iniziato a domandarmi: ‘Sei cristiano?’. Ed io: ‘Sono ebreo’. E loro: ‘E cosa significa questo?’. Ma il fatto è che sino ad allora nessuno mi aveva chiesto chi ero. Ed è lì, che per la prima volta mi sono sentito una minoranza. Molti miei amici indù hanno sentito come giusto quel che succedeva. Il mio comune senso di realtà mi diceva, invece, che uccidere un’altra persona, un altro cittadino, fosse sbagliato. E molti invece reagivano dicendo ‘Cosa c’è di sbagliato in quello che è successo?’”.

Robin prende fiato, riflette, prima di riprendere a parlare: “E la mia conclusione più importante è che hindu e musulmani vivono in un consapevole e definito ‘ghetto’. Ci sono veramente poche interazioni tra le due comunità, nel senso di normali interazioni. Di fatto vivono nelle loro piccole, secolari, isole. E sino a quando non si romperà questa situazione di ghetto, il pregiudizio è destinato a salire, sino al punto in cui potrà di nuovo succedere qualcosa di terribile, nel futuro.”

Robin sorride alle mie domande da occidentale sulla tolleranza, e racconta: “L’India è un Paese spirituale, ma ho i miei dubbi che sia un Paese tollerante. L’India ha avuto Gandhi, è vero, ma io credo che poche persone credano veramente nei suoi insegnamenti. Credo che la divisione tra le due comunità abbia coinvolto tutti, forse con l’eccezione di chi gravita in prossimità del potere economico, come ad esempio i Dawoodi Bohra [una minoranza appartenente alla comunità musulmana n.d.t] che hanno preferito difendere i propri interessi economici e la loro vicinanza al partito nazionalista hindu di Modi.”

Ascolto l’opinione della moglie di Robin, Raheel, Phd in Sociologia alla Oxford University: “I problemi corrono in profondità. I mass media parlano di una situazione di pace, ma nella realtà la popolazione vive segregata nella propria comunità, come se fosse assolutamente normale; per me questa non è una situazione normale, perché la dignità è una questione molto importante. E’ vero, posso andare dove voglio, mangiare cosa voglio, ma Ahmedabad resta segregata in compartimenti stagni, come altre città in India.”

Secondo Raheel, “oggi molti musulmani sostengono il BJP, il partito induista, nonostante sia stato coinvolto nelle violenze a danno dei musulmani stessi. E’ interessante che, secondo le mie ricerche, le persone che sostengono apertamente il partito, non lo votano nel segreto dell’urna. Quello che cercano è una sorta di approvazione sociale. Non possiamo definire questa una vera pace.”

Le chiedo quale possa essere una possibile soluzione, una via d’uscita; “l’unica soluzione per una vera riconciliazione tra le parti è creare una piattaforma di scambio, di condivisione. Quanto incontro i membri di ciascuna comunità, mi rendo conto che non conoscono la realtà dell’altra comunità, essenzialmente perché non conoscono persone dell’altra parte. Un elevato livello di non conoscenza dell’altro, che crea spazi di segregazione, che a loro volta continuano a produrre pregiudizi. Perché poi, quando conoscono l’altro, si rendono conto che non è molto differente da loro. E’ apparentemente una visione semplicistica, ma occorre considerare che in India, molti degli scontri tra le comunità, sono avvallati dallo Stato, perché sono in grado di muovere l’elettorato in una direzione o l’altra. La violenza è sempre una questione causata dalla politica, dove agli schieramenti conviene che la divisione e gli scontri continuino, con l’obiettivo della rielezione, agendo sulla leva della religione.”

Raheel è molto dura quando parla del discusso leader del BJP: “E’ necessaria una chiarificazione della memoria storica, anche sulla figura di Narendra Modi, candidato alla guida dell’India alle prossime elezioni. Come è possibile che un personaggio apertamente associato ai responsabili delle violenze, delle uccisioni, sia stato eletto due volte primo ministro del Gujarat senza problemi? Si sa che lui è essenzialmente un autocrate, e occorrerà difendere la Costituzione dai suoi tentativi di volgere ad uno stato dispotico, ma prima di tutto è necessario aprire un dibattito sul suo ruolo nelle violenze in Gujarat nel 2002.”

L’India è una signora di sessantasei anni, due separazioni alle spalle, molte incognite sulla composizione della sua società, che ancora non sa scegliere gli uomini che la devono condurre al gran ballo della modernità.



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