Forconi. Timori, analisi

Forconi. Oltre alla cronaca, desolante e preoccupante, qualche analisi. Nessuno li aveva visti arrivare?

di Angelo Miotto

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Nella terza giornata dei cosiddetti forconi, cioè ieri, a Torino si è arrivati a sei arresti. I video che circolano sempre più numerosi raccontano di intimidazioni e minacce. La Cgil ha denunciato tentativi di irruzione in alcune sue sedi, mentre a Bari e a Torino vengono convocate manifestazioni contro i forconi, a salvaguardia della democrazia. La domanda che molti si pongono, guardando con gli occhi della rete, è: chi sono. Le risposte sono a volte secche, son fascisti (le foto della presenza dell’estrema destra sono circolate in abbondanza, saluti romani e celtiche), oppure indicano una marmaglia composita, fra destra, ultras politicizzati (sempre destra), piccola borghesia affamata, e qualche spezzone che convive nella piazza, ma su un sentiero autonomo, qualche gruppo di studenti il 9 dicembre, per esempio in alcune città. Perché ogni città varia, anche se ci sono dei tratti comuni.

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Il ‘pensiero forcone’ è debole, è grezzo, sgrammaticato. Anticasta: via il governo, via il parlamento, via l’euro, via equitalia, governo di nominati, o addirittura di carabinieri, e quindi nuove elezioni.

Un pensiero grezzo, ma così grezzo che pare costruito quasi apposta per rappresentare uno strato sociale di arrabbiati dai modi spicci.

Insieme alla sacrosanta indignazione di molti in queste ore cresce anche il timore, che è il sentimento che ci pervade in sfumature diverse quando ci troviamo di fronte a qualche cosa che non conosciamo e che ci turba. Abbiamo visto picchetti e manifestazioni, sappiamo chi va in piazza, riconosciamo appartenenze, partiti di plastica e slogan. Ma questa marmaglia che usa modi aggressivi, violenti, dai simboli che insospettiscono i vecchi compagni – la bandiera italiana – ed esibisce il lato peggiore di una non cultura, in nome del siamo alla fame, è senza dubbio un fatto socialmente rilevante, oltre che interessante.

Certo, lunedì 9 dicembre i caschi dei poliziotti che venivano levati da Genova a Torino e in altre città italiane lanciavano un messaggio, che si trasformava in preoccupazione per molti dopo il comunicato del Siulp e Ugl. Qualcuno in divisa ha dichiarato empatia con la protesta. Mentre lo stupore delle immagini che arrivavano in rete risvegliava un pensiero immediato: poliziotti e carabinieri figli del popolo si dovrebbero levare il casco di fronte alle vittime della repressione di stato, quello minuscolo.
Poi l’immancabile tigre cavalcata da Grillo nel demente appello all’insubordinazione, che gli è costato qualche denuncia.

Vale la pena ripercorrere alcune cose che sono state scritte in queste ore.

Non prima di far notare che il Governo ci ha messo troppo a dire una parola, che il ministro degli Interni sempre così solerte nel criminalizzare, che so, i No Tav ci ha messo ore prima di spiccicare verbo, che i racconti che giungevano da Torino parlavano di un lasciar fare desolante e che senza essere per forza complottisti dei fatti si deve tenere in conto.
L’autocritica di un politico e di un giornalista dovrebbe essere quella che mette in questione il ‘fiuto’ sociale. Ma come, proprio non li abbiamo visti arrivare?

Mentre, come ci ricorda Paolo Hutter su Il Fatto, aspettavamo una reazione alla 15-M spagnola, mai arrivata, ci ritroviamo con una mobilitazione – meglio che Movimento dice il sociologo Fabio De Nardis – che parla con icone della destra, infiltrato dalla destra estrema, ma molto più complesso di quanto possa sembrare. E quindi abbiamo parlato di crisi, ma restando attaccati a stereotipi nostrani e raccontando di altre latitudini, mentre qualche cosa, evidentemente, covava.
Perché si fa fatica a credere che tutto sia spontaneo e improvvisato

Ma torniamo alle analisi. Alcune ce le suggerisce sui social Marco Rovelli. Ci segnala, per esempio, uno scritto di Roberto Ciccarelli. Ne prendiamo uno stralcio.

 

Neo-poujadismo all’italiana

Questa polemica serve anche a caratterizzare con precisione la natura della “mobilitazione” di cui parlano i media. Si tratta dunque di un movimento neo-poujadista che vorrebbe organizzare, come nei primi anni Cinquanta in Francia, scioperi per bloccare il paese, influire sulla dialettica politica, schierarsi contro i sindacati, i partiti della sinistra (in Francia allora esistevano).

A differenza di quanto stiamo osservando oggi in Italia, allora lo sciopero fu vero, e il blocco totale. Il campo sociale è tuttavia simile: in Italia sembrano avere preso parola commercianti e agricoltori. In Francia furono loro ad opporsi al carico fiscale, all’inefficienza del parlamento (che oggi la “brodaglia incommestibile dei poujadisti italiani definiscono “illegalità”). Anche perché c’è stata la sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale la legge elettorale. Si tratta infine di una mobilitazione anti-europea. Pierre Poujade insorgeva contro alla firma del trattato di Roma dell’allora costituenda CEE. Oggi i pojadisti “insorgono” contro le politiche di austerità della Troika.

Questo dibattito, che anima anche molti siti della sinistra di movimento e antagonista, è solo una spia. Non di una “rivoluzione”, che ovviamente non ci sarà, ma della cornice discorsiva nella quale si svolgerà la prossima capagna per le elezioni al parlamento europeo, e per la nomina della prossima Commissione. Ieri in Francia, e oggi in Italua, vince la dimensione corporativa tanto nell’affermazione del populismo e dell’antipolitica quanto nell’opposizione ad entrambi.

Territorio fertile per gruppuscoli di estrema destra o, più seriamente, del movimento cinque stelle.

 

 

Il secondo consiglio che rubiamo è nell’intervista al sociologo Aldo Bonomi, pubblicata dall’Huffington Post. Prendiamo una delle risposte.

Chi sono i protagonisti del movimento dei Forconi?
Sono soprattutto le persone che patiscono la fine del postfordismo italico. I piccoli imprenditori di quello che ho ribattezzato “capitalismo molecolare”, il piccolo commercio diffuso, i commercianti, i bancarellari, gli ambulanti, la logistica minuta e cioè i padroncini, i camionisti. Una moltitudine rancorosa appartenente a un modello economico che sta sparendo, una piccola borghesia pesantemente stressata dal fisco e impoverita dalla crisi che come sociologo non intercetto alle porte dei sindacati o delle associazioni di categoria, bensì alla mensa della Caritas. Un luogo dove naturalmente arrivano disoccupati e cassintegrati, ma anche appartenenti a quella composizione sociale che definirei “non più”: non più negozianti, non più commercianti, non più piccoli imprenditori. Sono anni che raccontiamo questo disagio e diamo l’allarme. E ora questa massa critica ha fatto condensa.

 

Infoaut, citata da molti in rete, sta analizzando e raccontando il fenomeno e il 7 dicembre pubblicava un avviso ai naviganti. Prendiamo un paragrafo anche da qui.

Per concludere vorremmo ancora porre l’attenzione su un aspetto che ci sembra non trascurabile: come dicevamo, questi soggetti mostrano una esplicita allergia alla “politica” in tutte le sue forme. Come si è già verificato col grillismo, per la maggioranza di questi uomini e donne la contrapposizione politica storica tra Destra e Sinistra non ha più alcun senso. Non per accodarci ai corifei che negli ultimi decenni hanno predicato il puro e semplice abbandono di una collocazione, un’appartenenza e un’identità, prendiamo comunque atto che per quote ampie di popolazione queste non rappresentano più niente, proprio perché non esiste più alcuna esternità al rapporto di Capitale, perché la sussunzione reale della società al Capitale è un fatto compiuto e irreversibile (a meno, appunto, di un processo rivoluzionario di radicale trasformazione dei rapporti sociali e di liberazione degli umani – processo che non avverrà da solo ma che dovrà essere aiutato, costruito, tentato). Assumiamo qui il punto di vista secondo il quale ci troviamo di fronte all’individualizzazione ultima cui è giunto il processo di capitalistizzazione della società, ormai abitata da puri atomi sprovvisti di identità forti che non siano quelle illusorie e reprimenti della famiglia e della nazionalità di appartenenza, o quelle ben più profonde (impercepite ma più pericolose perché più sottili) del consumo e dell’effimero. Qualcuno l’ha definita piccola borghesia come nuova classe universale, qualcun altro moltitudine (ma, diremmo noi, alquanto polverizzata e molto poco classe per sé), altri ancora soggettività del capitalismo tecno-nichilista, qualcun altro bloom… Quel che è certo è che con questi frammenti di classe, con questa umanità, ci dovremo confrontare.

Marco Revelli, sociologo torinese  a Radio Onda d’Urto: parla di Torino e di cose che ha visto.
La sua analisi è interessante, ne abbiamo sbobinato una parte. Chiediamo venia a Radio Onda D’Urto, che salutiamo e ringraziamo.

Sono andato a vedere: alle rotonde presidiate ho visto le facce di chi c’era. Era uno spaccato di come la crisi ha lavorato in questo paese, gente impoverita. Tutte le classi di età, molti giovani che facevano i blocchi, accanto a loro gente con i capelli bianchi, piccoli commercianti, artigiani, autotrasportatori, disoccupati, molti, falliti, precari, la fascia bassa del precariato manuale. Il lavoro autonomo di prima generazione, direbbe Sergio Bologna e il precariato del mercato di seconda o terza fascia, edilizia, e così via. Gente che non ce la fa più.  L’Italia che non ce la fa più e non è rappresentata da nessuno. Poi possiamo cercare di capire chi ci mette il cappello, il radicalismo di destra, pezzi di ultrà, non credo che sia una buona operazione però quella di ridurre il fenomeno, almeno per Torino, a una operazione di estrema destra. È  un’area sociale che la politica ha fatto di tutto per regalarla all’estrema destra extraparlamentare.

Devo dire che, imbottigliato nel traffico, ho notato che c’era una grande solidarietà da parte di quelli che vengono presentati come le vittime. Il segno di riconoscimento era il pollice alzato che si scambiava fra manifestanti e automobilisti.

Questa composizione sociale non è per sua natura di destra. Ma dato lo stato della sinistra la destra ha più appeal, più. È un blocco sociale eterogeneo, tendenzialmente individualistico, non come gli operai, qui mettono insieme tanti atomi sofferenti, tante cartelle di equitalia, tanti debiti, tante morosità negli affitti e le portano in piazza.

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Quarto giorno.  Calvani parla in piazza, scrive un forcone su facebook, e un suo amico gli risponde: e chi è? E un altro: ma è il capo, the boss e lo associa a Forza Nuova, ma viene smentito in replica fino a quando arriva un altro forcone e dice: violenza gnente.
Può far sorridere chi è abituato a guardare, rubo un’espressione, con il sopracciglio alzato questa ignoranza e povertà lessicale, specchio del non-pensiero.
Ma, il quadro si chiarirà nelle prossime ore, c’è un pezzo di questo paese.
Che non ci piace, che ci ricorda il peggio, che grida al rogo dei libri, foss’anche solo una frase gettata là, ma che è più che mai indicativa.

 

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