Colonna destra: Giulia Bondi

La colonna destra dei siti mainstream italiani è il trionfo dei click e la morte del contenuto in rete. Dai castori che ballano alle anatomie dei corpi esibiti in finti servizi rubati.

Q Code Mag affronta la sonnolenza postprandiale che caratterizza alcune date clou di queste feste, o il senso dilatato delle giornate natalizie e di inizio anno, con una carrellata di consigli fra lettura, video, cinema, facezie o spunti per svuotare la scatola cranica. O riempirla di contenuti di quel bellissimo concetto dei nostri avi, che veneravano l’otium come occasione di crescita personale. 

 

di Giulia Bondi

 

28 dicembre 2013. “Don’t fall in love with me yet / we only recently met”. Inizia e finisce con l’amore, questa colonna destra. Inizia con un disco  di quasi 15 anni fa e finisce con un film ora nelle sale. Nel mezzo un paio di libri, un altro film, e l’augurio di un divano comodo per goderseli, con relativo plaid. Consigli in ordine sparso, per conoscere e riflettere, per svagarsi, immaginare e sognare.

 

69lovesongs

 

69 love songs”. Con questo triplo album del 1999, i Magnetic Fields scelgono il più bipartisan dei numeri e mantengono le promesse del titolo: sette decine di pezzi, meno uno, per esplorare tutte le sfumature dei “love songs”.  Dalla spensierata “I’m the luckiest guy on the lower East side” alla lettera d’amore tra nostalgia e autoironia (“Come back from San Francisco”), dai piaceri del sesso (“Let’s pretend we’re bunny rabbits”) al tormento di non essere ricambiati (“All my little words”), dalla constatazione –amichevole- del rischio di rendersi ridicoli (“A chicken with his head cut off”) alle risate sul dolore di essersi lasciati (“I think I need a new heart”) fino ai divertissement di 30 secondi come “Experimental music love”, e “How fucking romantic”, quelli che alla fine servono per arrivare davvero a 69.

Quasi tre ore di delizioso pop, cominciando dalla A di “Absolutely cuckoo” (“Non ti innamorare ancora, ci siamo appena conosciuti”) fino alla Z di “Zebra”, epilogo in valzer dove la voce di Claudia Gonson (che nell’album si alterna a Stephen Merrit e altri) ricorda: “Ci siamo sposati a Venezia, il resto è una lunga luna di miele, ma questo non significa che siamo innamorati”, e chiede come prova d’amore regali preziosi e impossibili, dalla zebra del titolo alla piramide di Cheope.

 

laxness

 

Un mondo d’amore che rischia di sgretolarsi con l’arrivo del capitalismo. È una delle tante chiavi di lettura del secondo dei miei consigli, “Il concerto dei pesci”, romanzo del 1957 del premio Nobel islandese Halldór Laxness (1902-1998), pubblicato in Italia cinquant’anni dopo da Iperborea. Con una galleria di personaggi strampalati visti attraverso gli occhi del piccolo Álfgrímur, allevato dai nonni adottivi nel borgo di pescatori di Brekkukot, in una casa di torba dove l’ospitalità è sacra e ogni parola è preziosa, Laxness racconta la Reykjavík del primo Novecento e dice moltissimo dell’Islanda di oggi.

Lo fa raccontando la gloria del tenore Garðar Hólm, conosciuto in ogni angolo del globo, ma incapace di cantare in patria. Le dispute sulla pesca, con gli stranieri che “usano le reti a strascico e i pescherecci fino all’uscio di casa, e fino agli orti qui nelle nostre baie”. La fondazione delle prime banche “dove la gente comune può accumulare il suo denaro”.

E l’arrivo del prezioso filo spinato da srotolare “intorno a terreni, poggi e colline, paludi e brughiere, fino alle cime dei monti e ai più estremi scogli del mare”.

 

primo levi

 

Filo spinato per segnare proprietà e per limitare libertà. Il secondo libro, ripubblicato qualche anno fa da Einaudi in un’edizione curata da Marco Belpoliti, è “Tutti i racconti” di Primo Levi. Contiene i racconti del “Sistema periodico”, ma soprattutto molti altri meno noti. Tra quelli comunque legati all’esperienza del Lager, meraviglioso e immaginifico è “Lilith”, che parte da un giorno di pioggia, una mela, e la visione straziante e terribile di un’operaia polacca che si aggiusta i capelli, al di là del filo spinato, per arrivare alla leggenda ebraica di Lilith, donna-diavola, creata forte come l’uomo, ribelle contro Dio e infine sua amante in un crescendo di tormento e bellezza.

Non parla solo di lager, Levi, ma all’idea del lager attinge sempre. Molti racconti partono da quella che Gianni Rodari chiamerebbe una “ipotesi fantastica”, che però per Levi diventa un’ipotesi di orrore. Se è accaduto il lager, scrive Primo Levi, allora potrebbe accadere anche questo.

E tra parole leggere, ma precisissime, accompagna il lettore in mondi di fantascienza nera, in cui l’acqua è diventata vischiosa, le giovani donne vengono ibernate per poter vivere più a lungo, una fonte di reddito sono i tatuaggi pubblicitari sulla fronte, e scienziati zelanti sperimentano su conigli impazziti, e poi su se stessi, misteriose  sostanze che trasformano il dolore in piacere.

 la mia classe2

 

Per gli ultimi due consigli sarebbe bene lasciare il divano e trovare un cinema, e di quelli che una volta si chiamavano “d’essai”. Il primo è l’ultima opera di Daniele Gaglianone, “La mia classe”, presentato a settembre al festival di Venezia.

Se il confine tra documentario e fiction era sottile anche nel film vincitore del Leone d’oro, “Sacro Gra” di Gianfranco Rosi, Gaglianone lo scardina del tutto, mettendo in scena un “attore-attore”, Valerio Mastandrea, e una quindicina di “attori-personaggi”, giovani stranieri per lo più nella parte di se stessi. E immaginando, o lasciando accadere, le storie che s’intrecciano in una scuola di italiano per stranieri nella periferia della capitale.

Permessi di soggiorno che scadono, discussioni sui diritti e i doveri, storie di violenza e di discriminazione, nostalgia della propria terra, risate e sorrisi amari di fronte a un’Italia vista con gli occhi di chi ci è immigrato.

 

lunchbox

 

L’ultimo consiglio è un’opera prima, “Lunchbox” del regista indiano Ritesh Batra, saporita commedia sentimentale fondata su uno scambio di “dabba”, vale a dire la “schiscetta del pranzo” che dà il titolo al film.

“Noi non sbagliamo mai, sono venuti anche i signori di Harvard  a studiare il nostro sistema”, replica punto sul vivo il “dabbawala”,  fattorino in bicicletta, alla bella casalinga Ila, quando lei si lamenta di uno scambio di persona.

Eppure lo scambio c’è stato, e da quel primo pasto consegnato per errore, anziché al marito di Ila, al vedovo Saajan, nasce una fitta e romantica relazione epistolare, bigliettini quotidiani nascosti nel metallo lucido della gavetta. Si esce dal cinema (il film è nelle sale in questi giorni) sorridendo e chiedendosi – come recita la locandina: “Ti innamoreresti di qualcuno che non hai mai visto?”.

Una domanda nemmeno tanto oziosa in tempi di Facebook e nuvole. Per la risposta, torna all’inizio dell’articolo e fai partire l’album dei Magnetic Fields.



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