Colonna destra: Francesca Rolandi

La colonna destra dei siti mainstream italiani è il trionfo dei click e la morte del contenuto in rete. Dai castori che ballano alle anatomie dei corpi esibiti in finti servizi rubati.

Q Code Mag affronta la sonnolenza postprandiale che caratterizza alcune date clou di queste feste, o il senso dilatato delle giornate natalizie e di inizio anno, con una carrellata di consigli fra lettura, video, cinema, facezie o spunti per svuotare la scatola cranica. O riempirla di contenuti di quel bellissimo concetto dei nostri avi, che veneravano l’otium come occasione di crescita personale

di Francesca Rolandi

1 gennaio 2014 – Poche righe, la difficoltà di restringere alcuni suggerimenti  di letture, visione, ascolto da una piccola area del mondo che si definisce per quello che era e non per quello che è: lo spazio post-jugoslavo, quello che viene dopo un qualcosa che è finito ma che ha ancora un’identità comune.

Il primo libro è Nowhere man di Aleksandar Hemon (Einaudi 2004), un romanzo in parte autobiografico, che, attraverso tre tappe, ripercorre la parabola di vita del protagonista: l’infanzia e gli anni dell’adolescenza e dell’università in una Sarajevo mitica che attraversava il suo periodo di maggiore vivacità culturale prima della tempesta e risuonava di rock’n’roll; un breve periodo trascorso in Ucraina, alla scoperta della lingua dei suoi antenati e di un mondo diverso che aveva conosciuto fino a quel momento, dove i busti di Lenin cadevano e Bush padre arrivava in visita; il periodo americano, al quale il protagonista si trova costretto dallo scoppio della guerra in Bosnia e, tra lavori sottopagati e precarietà sentimentale, si trasforma in uomo che “non è da nessuna parte”. Un topos della letteratura bosniaca, quello del romanzo di formazione interrotto dalla guerra, ma anche un viaggio in una condizione esistenziale universale, quella del profugo e dello sradicato. Un’esperienza autobiografica che penetra tutta l’opera di Hemon, fino al recentissimo Il libro delle mie vite (Einaudi 2013).

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Se il tempo per la lettura durante le feste avanza, ecco un altro romanzo auobiografico, L’isola nuda, di Dunja Badnjevic (Bollati Boringhieri 2008), nel quale l’autrice ripercorre la storia della sua famiglia dentro alla quale è possibile leggere quella della Jugoslavia . La memoria della Badnjevic ricrea con particolare pathos la figura del padre, discendente dell’aristocrazia erzegovese, che, fervente comunista, fu partigiano e iniziò una promettente carriera politica nel nuovo stato socialista, ma venne travolto delle circostanze politiche: nel 1948, in seguito alla rottura tra Tito e Stalin, non riuscì a mettere in un cassetto l’internazionalismo nel quale aveva creduto per tutta la vita e finì nel lager di Goli Otok, luogo di detenzione e tortura per i dichiarati o presunti cominformisti. La narrazione alterna i ricordi d’infanzia, il diario del padre e le impressioni di una recente visita dell’autrice a Goli Otok, per restituire la brutalità di un sistema carcerario pensato per piegare gli ex compagni che avevano resistito alle carceri fasciste e per spezzare la congiura del silenzio di chi in Jugoslavia si era trovato dalla parte sbagliata.

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Un affresco pessimista e ironico allo stesso tempo della Bosnia del dopoguerra nel film “Benvenuto Mr President” (sfortunata traduzione italiana del bosniaco “Gori vatra”, letteralmente “La fiamma brucia”) (2003), di Pjer Žalica. Una cittadina bosniaca, piagata dalla crisi economica, dalla corruzione e dai rancori della guerra, cerca di offrire di sé l’immagine di una realtà modello di ricostruzione post-bellica in attesa della visita per accontentare i funzionari delle organizzazioni internazionali e per il presidente Clinton che visiterà le città . Così le prostitute del bordello locale si trasformano in ballerine di un gruppo folcloristico, si finge che i profughi serbi siano ritornati nelle loro case, mentre negli uffici del Comune si bruciano gli archivi per nascondere i misfatti dell’amministrazione. Una satira graffiante dell’incapacità della classe dirigente della Bosnia post-bellica e della cecità delle organizzazioni internazionali.

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Il documentario “Un villaggio senza donne” (2010) del regista Srdjan Sarenac racconta la storia di tre fratelli, tra gli ultimi rimasti in un villaggio ormai spopolato tra le montagne del sud della Serbia, uno dei quali conclude che l’unica possibilità di trovare una moglie è di andare a cercarla in Albania. Il documentario, con uno sguardo dolce-amaro, segue le vicissitudini del futuro sposo, lo scontro con i pregiudizi, le difficoltà di uno stile di vita il cui orologio si è fermato alcuni secoli fa, i rapporti transnazionali che si creano per colmare disequilibri. Il racconto di un territorio ai margini, che potrebbe essere quello del nostro Appennino di un mezzo secolo fa.

I Cherkezi United, nel loro album  Petoljetka, fondono Croazia e Ucraina (da cui proviene il chitarrista), canzoni partigiane sovietiche e punk rock, sonorità tradizionali russe e ritmi trascinanti, eroine anarchiche e realtà croata. “Petoljetka”, il piano quinquiennale, dal nome dell’album, non è voluto da Giovanni Ferretti e i Cherkezi non sono i CCCP, ma cantano soprattutto di richiami goliardici, fumi dell’alcool, sudore. L’iconografia post-socialista che qua troviamo sullo sfondo si sta negli ultimi anni sempre più diffondendo nelle repubbliche della ex Jugoslavia, anche nei paesi che, come la Croazia, più lo avevano demonizzato.

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