Le vedove nere

Dal Daghestan e dalla Cecenia fino alle bombe di Volgograd: storia di una sopraffazione senza fine, dentro e fuori le mura domestiche, subita dalle donne del Caucaso

di Anna Maria Volpe

4 gennaio 2014 – Il doppio attentato di Volgograd che fa tremare la Russia vede la sanguinosa mano del terrorismo fondamentalista islamico minacciare le Olimpiadi invernali di Sochi (a 700 chilometri da Volgograd). L’accaduto riporta agli occhi dell’opinione pubblica la questione del terrorismo di matrice islamica, proveniente dalle regioni irredentiste caucasiche quali Cecenia e Daghestan. Uno dei metodi più utilizzati dai separatisti prevede l’utilizzo di donne-bomba.

Il primo degli attentati portati a termine da donne in Russia risale a giugno del 2000, pochi mesi dopo l’inizio della seconda guerra in Cecenia. Da allora ve ne sono stati circa venti, con un bilancio di almeno 790 morti (il dato è ufficiale e include le centinaia di vittime della scuola di Beslan – Ossezia del Nord e dell’assalto del teatro Dubrovka di Mosca, molte delle quali provocate dall’intervento delle forze speciali russe).

Dopo il sequestro di Beslan nel 2004, per sei anni le donne cecene avevano smesso di farsi esplodere o di minacciare di farlo. Ma nel 2010 sono ripresi gli attentati. Unica differenza: la provenienza delle donne, non più solo dalla Cecenia ma anche dal Daghestan. Oggi, l’ombra lunga delle vedove nere si allunga nuovamente sulla Russia, ad un passo da un evento che dovrebbe essere la “vetrina” del Paese agli occhi della comunità internazionale.

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Quale contesto?

La Cecenia è una regione del Caucaso che conta circa 700mila abitanti. Si tratta di un territorio assolutamente strategico per Mosca poiché ricco di giacimenti di greggio e di gas naturali. Esso fornisce alla capitale russa circa 150mila barili di greggio estratti al giorno. L’implosione dell’Unione Sovietica crea le premesse per le spinte indipendentiste della regione fino alla  proclamazione nel 1993 della Repubblica dopo una violenta guerra civile fra separatisti e lealisti. Nel dicembre del 1994 la Cecenia è invasa dai russi e nel gennaio del 1995 Grozny, la capitale, occupata.

La brutalità e l’intransigenza delle truppe incoraggia la resistenza, rendendola più ostinata. Nel 1996 i russi si ritirano, ma l’instabilità dell’intera regione caucasica continua  con una serie di attentati contro i militari russi presenti nella repubbliche vicine (Inguscezia, Daghestan) da parte di bande di guerriglieri sempre più legati all’estremismo islamico.

Nel 1999 con l’obiettivo di eliminare le bande islamiche della zona la Russia del presidente Putin sferra un nuovo attacco in Cecenia fino ad occupare nuovamente Grozny. Nel 2000,  un rapporto delll’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Mary Robinson, denuncia la feroce violazione dei diritti umani da parte dell’esercito russo e delle brutalità commesse nei confronti della popolazione civile. Tracciare questa premessa è necessario per meglio comprendere il contesto storico e  le motivazioni di forte rivendicazione in cui una donna cecena che si fa saltare in aria cresce e vive.

In Cecenia e Daghestan la condizione sociale rende doppiamente vittima la donna e ne crea l’humus culturale che la porta al cosidetto “martirio”. Come scrive la giornalista Julia Juzik nel suo libro, “Le fidanzate di Allah”, la vita stessa di queste donne altro non è che la preparazione psicologica alla fine. Le attentatrici che si immolano nelle grandi metropoli russe possono essere divise in due categorie: la donna sfortunata e la fidanzata. Esse hanno un comune minimo denominatore: entrambe sono state rapite e allontanate dalla famiglia.

La prima è una donna tra i trenta e quarant’anni rimasta vedova o, più semplicemente, una donna che ha avuto una vita disgraziata. E’ manipolabile, facile da convertire al wahabismo (corrente dell’Islam che propone, accanto al monoteismo assoluto, la purificazione dell’islam dalle innovazioni che lo snaturerebbero). I reclutatori cercano queste donne e, una volta trovate, non danno loro tregua finchè non cadono nelle loro rete di condizionamento psico-religioso. La fidanzata è invece una ragazza di diciassette-venticinque anni, che cresce già in un contesto wahabita. E’ docile, abituata a sottomettersi. Spesso, gli uomini del clan abusano di lei. E una donna violentata in Cecenia è una donna sola e persa più che mai.

Reclutamento e rapimento, isolamento e preparazione

La vittima è sempre l’ultima a conoscere il proprio destino. Nel caso della “sfortunata”, la donna viene gradualmente allontanata dalla famiglia e accolta dalla comunità d’adozione. Per quanto riguarda la fidanzata, un uomo del clan wahabita sceglie la ragazza presentandosi a casa sua, senza troppe spiegazioni. Un vero e proprio sequestro. La designata va via con lui e la famiglia non reagisce, per paura del ricatto e delle rappresaglie. In alcuni casi, viene pagata dai sequestratori in cambio del silenzio, anche se il terrore di queste persone è già un’ottima garanzia.

L’addestramento della martire può durare da un minimo di alcune settimane ad un massimo di sei mesi. Juzik sostiene che il tutto avvenga alla luce del sole. Anche i servizi segreti russi ne sarebbero a conoscenza. Nelle basi d’addestramento, la vittima è prigioniera, controllata costantemente dai suoi istruttori. La pressione emotiva esercitata sulla martire è estremamente elevata: le vengono ricordati i cari defunti, la si obbliga a leggere il Corano a voce alta. Attraverso degli altoparlanti si trasmettono costantemente le canzoni di Timur Mucaraev, ideologo del martirio.

Le donne-bomba vengono convinte che il loro sacrificio sia necessario, per i morti uccisi dai russi e per coloro che moriranno in questa guerra senza fine.

Fase finale

Nel caso in cui la donna esiti, le vengono somministrate delle sostanze stupefacenti. Sedate e drogate, le fidanzate di Allah sono cosi pronte a farsi esplodere. Sono numerosi i casi di donne kamikaze saltate in aria subito dopo essersi drogate con sostanza psicotrope, come riporta la Juzik.

Quando giunge il momento, la donna è condotta sul luogo stabilito, imbottita di esplosivo legato alla cintura. Una bomba vivente è innanzitutto una donna che non ha alcuna voglia di morire. Infatti, nella maggior parte dei casi, è il suo supervisore ad azionare il meccanismo esplosivo.  Il 23 ottobre 2002, nel teatro Dubrovka, a Mosca, nessuna donna azionò l’esplosivo.

La storia di Zaema Inarkaeva conferma le supposizioni di Julia Juzik. E’ la storia di una sedicenne prescelta per farsi saltare in aria negli uffici della polizia di quartiere. Giunta a destinazione, Zarema ha delle titubanze, si toglie di dosso la borsa carica di esplosiva e i suoi supervisori azionano il meccanismo. Se oggi Zarema vive è perchè la bomba non è esplosa in tutta la sua potenza.

Costretta a prostitursi per sbarcare il lunario, Zarema è costantemente minacciata di morte. La giovane ha avuto il coraggio di denunciare tutti. Ma in una terra in cui la legalità è utopia, sarà molto difficile ritrovare per lei una parvenza di normalità. Ciò conferma che chi semina terrore in Cecenia, fornisce nuovo materiale ai reclutatori: delle donne nelle cui case si è appena affacciata la miseria.



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