Sud Sudan: conflitto a rischio genocidio

Nella città dello Stato del Jonglei dal 15 dicembre si spara tutti i giorni: è la zona dove la crisi politica che sta sconvolgendo il Paese è più violenta.

di Lorenzo Bagnoli

7 gennaio 2014.– È dove il padre della patria John Garang, il 16 maggio 1983, sparò il primo colpo della Seconda guerra civile, quella che ha condotto fino all’indipendenza del 9 luglio 2011. Bor, cuore del Sud Sudan, 200 chilometri dalla captale Juba, è ancora il crocevia dei destini del 193esimo Paese del mondo, l’ultimo nato. Nella città dello Stato del Jonglei dal 15 dicembre si spara tutti i giorni: è la zona dove la crisi politica che sta sconvolgendo il Paese è più violenta.

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Due sono i conflitti che s’innestano l’uno sull’altro, in Sud Sudan. Il primo, è una scalata al potere: l’ex vice presidente Riek Machar, cacciato a luglio, lo contende al presidente Salva Kiir, che ha da allora cominciato a imprigionare tutti coloro che gli si oppongono. I due erano nello stesso partito, il Movimento per la liberazione del popolo sudanese (Splm). Solo che Machar non condivide i metodi di spartizione delle cariche politiche usato da Kiir. Il presidente in luglio lo mette in un angolo e quando filtra la notizia di un suo arresto, il 15 dicembre, gli uomini fedeli al leader dell’opposizione si ammutinano. E cominciano le violenze a Juba, la capitale. Gli uomini di Mechar sono i nuer, la seconda etnia più popolosa del Paese. La prima sono i dinka, tribù di cui è membro anche il presidente Salva Kiir. Tra i due gruppi non scorre buon sangue.

Così il conflitto da puramente politico si sta trasformando in genocidio etnico. Difficile dire quale parte stia cercando di eliminare l’altra. Per cercare di accreditarsi come alternativa a Salva Kiir, l’uomo che nella mente delle cancellerie occidentali doveva tenere a bada le decine di tribù del Paese, Riek Machar ha accolto tra i suoi alleati l’ex ministro dei Trasporti Rebecca Nyandeng de Madibor, vedova dell’eroe nazionale John Garang e amica personale di Barack Obama. E dinka, per giunta.

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L’emergenza umanitaria

Nel Sud Sudan regna il caos. Sono circa 200 mila gli sfollati dall’inizio della crisi politica. E cinque le aree calde del Paese: Bor, dove 8 mila persone stanno nei campi dell’Unmiss, la missione Onu in Sud Sudan. Gli altri 9 mila sono fuggiti con l’arrivo di altre pallottole e sono scappati a Aweirial (Lake State) più a nord. Qui sono 75 mila gli sfollati. A Juba, la capitale, sono tra i 25 e i 30 mila. Nel nord, a Malakal e Bentiu, due delle città che sorgono nelle zone più ricche di petrolio del Paese, ce ne sono 22 mila e 8 mila. “Hanno bisogno di tutto: acqua, latrine, cibo, cure mediche e sicurezza – spiega a Q code magazine Ludovico Gammarelli, di Echo (Humanitarian Aid and Civil Protection department of the European Commission), il dipartimento per l’aiuto umanitario e la protezione civile della Commissione europea -. Serve che le organizzazioni e le agenzie umanitarie ritornino per evitare che ci siano epidemie”.

Non sono i soldi che mancano: quel che è difficile è penetrare nelle zone più calde. Spesso non ci sono autorità, la negoziazione è estenuante. Garantire la sicurezza dei profughi è l’altro dilemma. Finora non si è potuto far altro che dividere i profughi a seconda delle etnie.

Nei campi sta la minoranza, fuori la maggioranza. Se i gruppi armati dei due maggiori contendenti almeno hanno un’idea di che cosa possa essere il diritto internazionale, ci sono altri gruppi minoritari che lo ignorano totalmente, come i miliziani del White army, un gruppo di 20 mila pastori nuer. Le zone sotto il loro controllo sono totalmente offlimits. Gli equilibri potrebbero cambiare nel sud del Paese: secondo alcune fonti locali che gli abitanti degli Stati equatoriali (Equatoria centrale, orientale e occidentale), di etnia dinka, vogliano appoggiare i ribelli. Ma questa resta solo una voce, ancora da confermare.

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Lo scacchiere internazionale

Ancora nessuna tregua, nonostante l’inizio dei negoziati di pace ad Addis Abeba cominciati il 3 gennaio. La pace tra Salva Kiir e Riek Machar è ancora lontana. Al primo giro, le trattative si sono chiuse senza accordi. Nel frattempo le diplomazie occidentali hanno tutte lasciato il Sud Sudan. L’Uganda ha invece mandato un suo contingente pronto a difendere il governo di Salva Kiir. “Lascia stupefatti il silenzio assordante del Sudan: non sappiamo cosa intenda fare”, continua Ludovico Gammarelli. Il Paese confinante ancora non ha fatto sentire la sua voce, “nemmeno sul piano strategico militare ci sono manovre al nord”, sulla linea di confine. Una cosa è certa: chiunque vincerà avrà il supporto del Paese governato dal padre padrone Omar al Bashir. Khartoum possiede le raffinerie dove lavora il greggio proveniente da Juba. Senza questa risorsa, la sua economia è in ginocchio.



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