Temporalidade

Chiacchierata con il regista Felipe Nahon nei dintorni del suo ultimo cortometraggio

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/11/1015058_4778608114201_571572631_o.jpg[/author_image] [author_info]di Elena Esposto. Nata in una ridente cittadina tra i monti trentini chiamata Rovereto, scappa di casa per la prima volta a sedici anni, destinazione Ungheria. Ha frequentato l’Università Cattolica a Milano e si è laureata in Politiche per la Cooperazione Internazionale allo Sviluppo. Ha vissuto per nove mesi a Rio de Janeiro durante l’università per studiare le favelas, le loro dinamiche socio-economiche, il traffico di droga e le politiche di controllo alla criminalità ed è rimasta decisamente segnata dalla saudade. Folle viaggiatrice, poliglotta, bevitrice di birra, mediamente cattolica e amante del bel tempo. Attualmente fa la spola tra Rovereto e Milano[/author_info] [/author]

7 gennaio 2014.– È sempre strano sentire una voce dopo tanto tempo. Anche se filtrata da skype. Anche se a distanza di migliaia di chilometri. I convenevoli non ci sono mai piaciuti, poche chiacchiere, lunghe conversazioni fitte e impegnate.

Felipe Nahon è un regista, sceneggiatore, responsabile del montaggio e fotografo nelle ore buche. Ha cominciato a lavorare a nove anni, come comparsa in videoclip e pubblicità. A quindici anni realizzò il suo primo lavoro in una casa di produzione di Rio de Janeiro e da quel momento non lasciò più quel mondo. Si è laureato in cinema nel 2002, quando diresse il suo primo cortometraggio De nada e il videoclip Conto de farsas. Nel 2013 si è specializzato in documentario e ha realizzato il cortometraggio Temporalidade. Oggi è socio/direttore della casa di produzione carioca  Tva2.

[sz-vimeo url=”http://vimeo.com/83401490″ /]

 

-Quindi hai visto il film, cosa ne pensi?

-Mi è piaciuto un sacco. Bé, l’ho visto due volte, per accertarmi di averlo compreso bene.

Il film di cui parliamo è il suo ultimo cortometraggio, Temporalidade, un insieme di spezzoni di vita vissuta montati senza ordine cronologico con lo scopo di discutere il processo di creazione di un film. Lui è Felipe Nahon, regista carioca.

-Vuoi iniziare con le domande?

-No, mi piacerebbe che mi raccontassi tu qualcosa del film prima.

-Il film nasce dal progetto finale per il corso di pós-graduação che ho frequentato. Da subito mi sono fatto delle domande come chi doveva essere il personaggio, quale doveva essere il tema… Dovevo partire da zero o potevo riorganizzare tutto il materiale che avevo accumulato negli anni, filmati che raccontavano della mia vita, cose che avevo già ma, che dopo averle filmate, non avevo più riguardato? Non ero sicuro di quello che volevo così ho iniziato a portare il materiale in classe, a farlo vedere ai miei compagni. Questa parte di lavoro di gruppo è stata molto importante e, anche se poi il prodotto è mio e dell’altro ragazzo che ha lavorato con me, i commenti degli altri hanno permesso di scegliere il materiale. È stato essenziale. Anche il professore vedeva i filmati, gli piacevano ma considerava il tutto come un prodotto slegato; i pezzi messi insieme non avevano un senso. Ad un certo punto lo dice nel film: “anche il mosaico vede i suoi pezzi incastrati l’uno nell’altro, il mosaico deve avere un senso”.

È stata proprio la critica del professore e degli altri studenti che mi hanno aiutato a risolvere la questione. Mi sono ricordato che le lezioni alla FGV (Fundação Getúlio Vargas) sono tutte registrate, tutte le voci in off che si sentono sono i commenti del professore e dei miei compagni sui pezzi del film non ancora pronto. Sto presentando immagini del passato, ma la critica è del presente.

Il film tratta la memoria e la costruzione del film in sé, scrive nel progetto. Non parla solo del contenuto ma anche della forma con cui costruiamo una narrativa, di come ricordiamo il passato, in modo non lineare.

Si sente un movimento strano in sottofondo. Mi dice che ha adottato un cucciolo che gli sta mordendo la sedia. Lo sgrida, gli dà un giocattolo e ridiamo. È il mio turno di fare domande.

Il tuo film si intitola Temporalidade, ma poi i pezzi che compongono il mosaico non sono collegati tra loro cronologicamente. Perché hai scelto questo titolo?

-Il tempo non esiste nel film e il senso del film è essere senza tempo. È una critica al processo di montaggio. Il cinema non ha una formula, tu potresti fare un film sull’azzurro e chiamarlo “giallo” o intitolarlo “un due tre”. Il materiale di ieri oggi ha un altro significato. A me piace un sacco filmare, ho sempre una videocamera in mano ma poi non riguardo mai quello che filmo. Così il materiale filmato diventa pellicola e la pellicola archivio. Non ha una temporalità, appunto. Qual’è il senso del tempo lineare quando monti secondo un criterio non lineare? La temporalità è relativa. Per questo, è un titolo non titolo. È come se dicessi: questo è il titolo ma non crederci!

Abbiamo parlato spesso del fatto che il cinema è arte. Recentemente ho visto un film fatto quasi solo di sequenze senza un senso logico. Era pura fotografia e colonna sonora, praticamente senza sceneggiatura. Se partiamo dal presupposto che il cinema, la finzione forse più che il documentario, è arte allora un film non può essere solo bello? Deve per forza avere un senso?

-Condivido ma non sono d’accordo quando dici che la finzione è più arte del documentario. Innanzitutto bisognerebbe aprire una discussione su che cos’è un documentario. È scegliere un tema e analizzarlo o è andare in spiaggia a Copacabana di domenica con una telecamera in mano? C’è bisogno della voce fuori campo che spiega o basta puntare un obiettivo? Per me anche questo è documentario, è documentare la vita. Poi, dire che il documentario è la realtà è un assurdo. È sempre un punto di vista. Tu che scrivi lo sai meglio di me, c’è sempre un filtro. Uno dei propositi del cortometraggio è proprio questo, discutere che cos’è un documentario. Però mi piacerebbe capire perché credi che la finzione sia più arte, abbia più diritto di essere solo bella.

Bé, generalmente in un documentario cerco uno scopo pratico, un insegnamento, una denuncia sociale, mentre quando guardo un film di finzione mi basta che sia bello, che mi lasci qualcosa, che mi emozioni. Non credi che un film abbia il diritto di essere solo questo?

-Per rispondere alla tua questione dovremmo decidere innanzitutto cos’è arte, ma poi finiremmo fuori dal tema. Comunque sì, sono d’accordo da questo punto di vista. Un film può essere solo questo, può non essere un cazzo, scusa il termine. Non deve per forza avere uno scopo sociale, far piangere… Secondo me un film raggiunge il suo scopo quando tira fuori da noi una qualche emozione, magari neanche quella cui pensava il regista. A volte ci sono commedie che fanno piangere. E comunque, anche se non mi emoziona un film non smette comunque di avere una funzione. Sai come si dice: tutto porta a qualcosa. Anche un film che non mi piace mi porta a interrogarmi. Perché non mi è piaciuto? Cosa mi ha dato fastidio? Mi serve per non fare lo stesso nei miei film, o per farlo qualora volessi suscitare negli altri le stesse sensazioni.

Ma in definitiva sì, il film può non avere un senso. E il tuo articolo avrà un senso?

-Non lo so, quando rielaborerò tutte le cose che ho scritto finora lo scoprirò.

-Stai prendendo appunti mentre parlo?

-Certo, altrimenti mi dimenticherei tutto.

-Scrivi in portoghese o italiano?

-In portoghese. Ma qualche parola che dici me la dimentico ma ricordo il senso allora la scrivo in italiano. E poi quando scriverò l’articolo ci saranno parole che non saprò tradurre e magari le scriverò in portoghese.

-Potrebbe essere interessante, scrivere un articolo in due lingue. Dai, scrivi un articolo senza senso.

-D’accordo, promesso.

Stiamo un po’ in silenzio. Sappiamo che l’idea è ridicola ma ci diverte.

Dalla prima scena, tu che esci da un uovo, all’ultima il film parla di un’evoluzione, di un avanzare. Perché hai usato materiale filmato durante i tuoi viaggi per montare il film? In fondo se il viaggio è la metafora della vita è anche vero che è qualcosa che ci porta via dal nostro quotidiano…

-Ho usato materiale dei miei viaggi innanzitutto perché ne avevo molto. Quando viaggio filmo molto di più che quando sto qui, in Brasile. E poi, come hai detto tu, la vita è una traiettoria. Il film mostra molto di quello che sono. Viaggio molto, adoro viaggiare. Anche la scena dell’uovo, il professore commentando ha detto che era la nascita di un regista. È una storia che ha lì il suo inizio, e non ha ancora una fine, per fortuna. I viaggi fanno crescere. Senti altri odori, altri sapori, altre lingue, ti fanno vedere il mondo da un’altra prospettiva. Ci sono fasi e luoghi della vita.

All’inizio del progetto, comunque, non volevo entrarci. Volevo far vedere tutto questo senza la mia presenza ma con le mie immagini. Non ci sono riuscito. Ho capito che la mia presenza era molto importante. Il film non poteva esserci se non c’ero anche io, capisci?

Ad un certo punto nel film si vede che siete in macchina, andando da qualche parte. Una delle ragazze chiede all’altra: “Dove stiamo andando?” e la seconda risponde: “Stiamo andando verso la nostra meta, è più avanti”. Qual’è la tua meta, da adesso in poi?

-È una bella domanda. Il film mi ha aiutato a chiarire molte cose, in relazione al cinema, alla mia vita, alla persona che sono. Sono sempre stato una persona curiosa, che faceva domande. Voglio fare un cinema che metta in discussione la forma, la funzione, quello che è e quello che non è, che cosa deve avere un senso, perché bisogna dare risposte, perché non si possono lasciare domande, un sacco di domande nella testa della gente. Se tu non hai capito il mio film, allora vuol dire che ha compiuto la sua funzione. Voglio chiedere, lasciare domande, non avere la certezza di quello che faccio. La domanda ci aiuta a svilupparci più che la risposta che spesso è solo una mera opinione. È molto diverso osservare senza giudicare e osservare giudicando, con quella smania di voler capire. Il mio film finisce e la gente non capisce, ma forse capisce che deve farsi delle domande.

-Parliamo della finestra, anche se ne abbiamo già parlato tante volte nelle nostre chiacchierate…

-Che bello che ti ricordi di quello di cui parlavamo.

-Non sarà facile dimenticarlo.

-Hai una memoria di ferro.

Il tuo film è pieno di finestre, e finisce con una finestra che si chiude. Quale senso ha la finestra per te?

-La finestra ha un potere evocativo per me. Tra l’altro è anche un termine cinematografico, che significa qualcosa come “formato di esibizione”… ma questo non centra. Quando la finestra si apre invadi e esplori un mondo nuovo. Il cinema è la finestra della vita, appaga quella nostra voglia di voyeurismo, come in quel film “La finestra sul cortile”… Pensa anche solo al Grande Fratello, e non solo in Brasile: tutti vogliono vedere l’intimità degli altri. Nel mio film apro la finestra della mia vita. La finestra poi ha una funzione importante, a parte il fatto che fa entrare luce e aria essa ti fa vedere cosa c’è dietro. O vedi e ti lasci vedere oppure la chiudi e non ti lasci vedere e non vedi. Nel film ho voluto aprire la mia finestra, mostrare un poco di me.

Il cortometraggio, dal punto di vista tecnico, è un homefilm, con tutte le caratteristiche che questo comporta. Credi che questo tipo di tecnica aiuti il pubblico ad arrivare più vicino al film e al film di approssimarsi di più a chi lo guarda?

-Quando filmavo non lo facevo con l’intenzione di fare un film per il cinema. Quando le persone si trovano davanti a una macchina da presa accesa non sono più genuine ma se è una videocamera piccola in un ambito informale sono più naturali, più loro stesse, si arriva più vicini alla realtà, all’onestà di ciò che sono davvero che non in una situazione di set cinematografico vero e proprio, con i microfoni, le luci eccetera. Io mi interesso molto alla tecnica, secondo me è imprescindibile ma non è solo di questo che si ha bisogno per fare cinema. La ricerca del documentario, o per lo meno la mia ricerca, è di arrivare il più vicino possibile alla realtà.

E credi che in questo modo la realtà arrivi più vicina a chi guarda?

-Si. Chi guarda è curioso, ha fame di realtà nuda e cruda, ha la tendenza del voyeurismo. Io cerco questo. Non ho filmato per lo spettatore, ma ho montato il film per lo spettatore. Nel momento del montaggio ho dovuto preoccuparmi con il fatto che il film avesse senso.

Ad un certo punto c’è una scena in cui discuti con un tuo amico del montaggio e lui ti deve far promettere di montare il film. Quali erano le tue perplessità a questo riguardo?

-È che il materiale era moltissimo. Ma come mi fa notare il mio amico se una cosa ti piace davvero la fai. Se anche il film non avesse senso per nessuno almeno ho tenuto fede alla promessa fatta ad un mio grande amico. Come il tuo articolo, se non avrà senso per chi lo legge almeno avrai tenuto fede alla promessa.



Lascia un commento