Viaggi nella memoria, Charlotte Delbo

Una mostra itinerante, visitabile a Carpi (Mo) fino al 19 gennaio e a Torino da lunedì 27, illumina la figura di Charlotte Delbo, resistente francese, scrittrice e autrice teatrale, sopravvissuta ad Auschwitz e testimone della tragedia della deportazione attraverso i libri, il teatro, l’impegno politico.

Nella cella dove è rinchiusa, prigioniera politica, le fanno compagnia Euridice, Amleto e i personaggi della Certosa di Parma. Si dice sia entrata ad Auschwitz, insieme ad altre duecentotrenta deportate politiche, cantando la Marsigliese. Per tutta la vita si interrogherà su come “dare a vedere” ciò che ha vissuto durante la deportazione attraverso le parole, i libri, il teatro. E negli anni Settanta interverrà nel dibattito politico francese, dalle pagine di Le Monde, con posizioni fuori dagli schemi sul terrorismo, la guerra d’Algeria, la storia e il suo uso pubblico.

 

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Alla figura luminosa e complessa di Charlotte Delbo (1913-1985), resistente francese, scrittrice, autrice teatrale, l’Istituto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea di Bergamo dedica la mostra “Charlotte Delbo. Una memoria, mille voci”, a cura di Elisabetta Ruffini, che fino al 19 gennaio si può visitare a Carpi a cura della Fondazione Fossoli ) e dal 27 gennaio si trasferirà a Torino.

 

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Nata nel 1913 in una famiglia di origine italiana, Charlotte Delbo sposa nel 1936 Georges Dudach, conosciuto qualche anno prima nell’ambiente della Jeunesse Comuniste. Insieme, frequentano i corsi dell’Université ouvrière, dove insegnano Jacques Politzer, Jacques Solomon, Henri Lefebvre.

“Non ho fatto degli studi ufficiali e non c’è un diploma che attesti le mie conoscenze”, scriverà Charlotte in un curriculum negli anni Sessanta, “Ma ho fatto della filosofia con Henri Lefebvre”. Lefebvre, con il quale Charlotte lavorerà di nuovo nel dopoguerra, all’epoca non è ancora un autore conosciuto: ha appena finito il dottorato.

“La radicalità dell’espressione, la precisione del pensiero, la ricerca della nitidezza dell’immagine, il lessico filosofico che ritorna nel periodare poetico di colei che diventerà scrittrice per farsi testimone del suo tempo”, spiega Elisabetta Ruffini nei testi della mostra, “sono le tracce della radice filosofica della sua formazione”.

Charlotte e il marito vivono a Parigi, in un piccolo appartamento nel III arrondissment. Funzionario del partito, Georges si sposta molto, mentre Charlotte lavora come steno-dattilografa. Libri, appunti e ogni testimonianza delle esperienze di questi anni spariranno al momento del loro arresto, nel 1942.

 

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Dalla primavera del 1937 i coniugi lavorano per “Les cahiers de la Jeunesse” ed è proprio nella realizzazione di un’intervista per il giornale che Charlotte conosce il regista e attore Louis Jouvet. La mattina dopo l’intervista, Charlotte riceve un telegramma del regista, che le chiede un incontro.

Teme un rimprovero, ma Jouvet, che la riceve in costume, intento a truccarsi per la rappresentazione dell’ “Elettra” di Giradoux, le confessa lo stupore nell’essersi riconosciuto nel testo dell’intervista come mai prima gli era capitato.

Charlotte confessa di avere stenografato e il regista la assume pochi giorni dopo come sua assistente, incaricandola di trascrivere i suoi appunti e il suo pensiero. Charlotte Delbo lavora per lui nei giorni che seguono l’occupazione tedesca di Parigi, seguendolo poi nelle tournée in Svizzera e America Latina, fino al novembre del 1941.

 

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Nel 1939, dopo la dichiarazione di guerra della Francia alla Germania, Georges è chiamato alle armi. Smobilitato dopo la capitolazione, nel settembre 1940, è tra coloro che tessono le fila per strutturare la resistenza di idee e di pensiero, tentando di mobilitare intellettuali e scrittori contro il nazismo.

Anche Charlotte collabora con lui una volta rientrata dal Sudamerica. Usano nomi falsi, per i padroni di casa sono i signori Delépine. Redigono riviste clandestine, nascondono volantini e documenti. Le Brigades Spéciales li arrestano la mattina del 2 marzo 1942, nell’ambito di un’operazione volta a colpire il cuore della Resistenza degli intellettuali.

 

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Imprigionati insieme nel carcere della Santé, Charlotte e Georges si dicono addio il 23 maggio 1942. Lui sarà fucilato il giorno stesso, lei invece verrà trasferita al Fort di Romainville, in zona militare, dove incontra le compagne con cui condividerà la vita a Birkenau: Viva (Vittoria Nenni, figlia di Pietro), Yvonne Blech, Yvonne Picard e altre.

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Domenica 24 gennaio 1943 le donne, 222, vengono caricate su un camion fino a Compiègne, dove si aggiungono altre prigioniere. Così il convoglio è pronto, 230 donne in quattro vagoni merci. Arrivano ad Auschwitz il mattino del 27 gennaio.

 

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Immatricolate tutte con numeri che iniziano per 31 (cifra distintiva del loro convoglio), sono assegnate al blocco 26 di Birkenau, insieme alle ebree polacche. Non subiscono selezione all’arrivo, non vengono separate, e sono le sole straniere ad essere registrate come deportate politiche. Conosciute nel campo come “Les françaises”, formano un gruppo compatto nel quale c’è “amicizia, sostegno, parola”.

 Nell’estate del 1943, dopo alcuni mesi di lager, sono ancora in vita 57 di loro. “Un così alto numero di sopravvissute – scrive la stessa Delbo – dopo sei mesi di campo, è eccezionale, unico nella storia del campo”. E ancora: “Ciascuna di noi sopravvissute sa che senza le altre non sarebbe ritornata”.

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Alla fine dell’estate molte donne del convoglio 31 sono trasferite a Raisko, destinate a lavorare nella filiera della produzione di gomma sintetica, per la quale la IG-Farben ha costruito una fabbrica accanto ad Auschwitz III – Monowitz (campo in cui fu internato anche Primo Levi).

Qui, Charlotte e le sue compagne riescono persino a ricostruire il testo del “Malato immaginario” di Moliere e montarne una messa in scena. A gennaio 1944 sono richiamate a Birkenau e di qui trasferite, in piccoli gruppi, a Ravensbruck. La liberazione arriva il 23 aprile 1945, poi, dopo un trasferimento in Svezia, Charlotte e le compagne sopravvissute rientrano a Parigi.

 

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Il lento e faticoso ritorno alla vita della ex deportata è sancito da una vestaglia color malva che le regala un amico, il primo oggetto in cui riesce, di nuovo, a riconoscersi donna. Con quel primo sorriso, Charlotte ricomincia ad amare la vita e torna al lavoro al fianco di Jouvet. In questi mesi incontra Pietro Nenni, padre di Vittoria, e a lui racconta le ultime ore della figlia, della cui morte è stata testimone diretta a Birkenau.

 

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Come Primo Levi, che non la conoscerà di persona ma ne apprezzerà le opere, anche Delbo racconta il sogno di essere tornata dal lager, narrare l’orrore e vedere l’indifferenza nel volto degli interlocutori. Nonostante la fatica, Charlotte sente il dovere di raccogliere la sfida. Memoria e arte insieme, per tentare di “dare a vedere”, per far conoscere “le parole, i gesti e le agonie di Auschwitz”.

 

 

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Scrive immediatamente al ritorno, il manoscritto è pronto nel luglio del 1946, e Charlotte lo spedisce a Jouvet accompagnandolo con una lettera. Lo definisce “questo che ho appena finito di scrivere (non è quello che avrei voluto scrivere ma quello che ho dovuto)”.

Lo pubblicherà solo nel 1965. Il titolo, “Aucun de nous ne reviendra”, è un verso della poesia di Apollinaire “La maison des morts”. Rivendica la scelta di fare memoria e testimonianza non al di fuori, ma attraverso la letteratura.

 

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Nello stesso anno pubblica “Le convoi du 24 janvier”, una ricostruzione sul nome e la storia di tutte le donne deportate con lei nel convoglio 31. A metà degli anni Settanta il suo testo dedicato ad Auschwitz, “Qui rapportera ces paroles?”, va in scena con ventitré attrici dirette dal regista François Darbon.

 

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Sempre negli anni Settanta, Charlotte Delbo dedica all’eccidio di un villaggio greco, scoperto nel corso di un viaggio, “Kalavrita des mille Antigone”, sulla cui copertina compare una litografia dell’amico artista Jean Picart le Doux.

 

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“Solo la poesia, con la sua sintetica violenza, può lenire il cuore”, scrive Giacomo Ulivi, partigiano emiliano, nell’autunno del 1944, pochi giorni prima di essere giustiziato. Versi affini alla visione della poesia che emerge dagli archivi di Charlotte Delbo: ricerca implacabile di precisione descrittiva, narrativa, emotiva.

 

Costruita a partire dagli archivi della scrittrice, depositati alla Bibliothèque Nationale de France dalla sua erede universale Claudine Riera-Collet, la mostra “Charlotte Delbo, una memoria, mille voci”, riapre gli scatoloni e naviga nel loro tesoro, riscoprendo e riproponendo fotografie (tra cui quelle scattate dall’amico fotografo Eric Schwab), manoscritti, dattiloscritti e documenti.

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Le si affianca la pubblicazione, per la prima volta in lingua italiana in versione integrale, di “Spettri, miei compagni” (Edizioni Il filo di Arianna), una lunga lettera indirizzata a Louis Jouvet, in cui l’autrice ritorna sull’esperienza della deportazione e del ritorno. Nel volume, curato come la mostra da Elisabetta Ruffini, la riflessione si allarga dall’universo concentrazionario, ai temi universali della memoria, dell’amore, dell’amicizia, dell’arte e del teatro.

“Tutto era falso, volti e libri, tutto mi mostrava la sua falsità ed io ero disperata di aver perso ogni capacità di illusione e di sogno, ogni permeabilità all’immaginazione, all’avventura. Ecco ciò che, di me, è morto ad Auschwitz. Ecco ciò che fa di me uno spettro […]. In che modo vivere in un mondo senza mistero? A lungo me lo sono chiesta senza trovare una risposta. Perché vivere se nulla è vero? È così comodo non poter più essere illusi, perché rimpiangerlo? Mi dibattevo in un dilemma insolubile. Guardavo i libri inutili. Tutto mi era inutile. Ma a cosa serve sapere quando non si sa più come vivere?”

 

 



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