China Leaks

Mentre l’attivista che voleva che i redditi dei funzionari fossero pubblici affronta un processo a porte chiuse, un team di giornalisti investigativi legati a un think-tank Usa fa nomi e cognomi dei “principini rossi” (figli o discendenti dei pezzi grossi del Partito) o di imprenditori di grido che, puntualmente e con continuità, mettono le proprie fortune in solidi forzieri occulti e all’estero.

Da Pechino, Gabriele Battaglia, Cecilia Attanasio Ghezzi
Tratto da www.china-files.com

Il processo di Xu Zhiyong, l’avvocato che da vent’anni si batte per i diritti civili, si è svolto stamattina presso il tribunale n.1 di Pechino. Alcuni diplomatici sono riusciti ad entrare nell’edificio, ma nell’aula non era ammesso nessuno. Xu e il suo avvocato sono rimasti in silenzio, rifiutandosi di partecipare a quella che hanno definito una “farsa”. Domani e dopodomani si svolgeranno i processi di altri sette attivisti del suo Movimento dei Nuovi cittadini. Sono accusati di “disturbo dell’ordine pubblico” per aver partecipato a manifestazioni che chiedevano che i funzionari pubblicassero redditi e asset.

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Un’imponente presenza di polizia ha evitato assembramenti fuori dal tribunale, dove una ventina di persone – tra petizionisti e attivisti – hanno cercato di denunciare i torti subiti e dimostrare solidarietà all’avvocato che si è sempre schierato dalla parte dei più deboli e a favore del rispetto della legge.
E proprio oggi, mentre è stata probabilmente messa la sordina alle sue battaglie, viene pubblicata un’inchiesta bomba che sembra andare molto oltre.

Il cognato del presidente Xi Jinping e i due figli dell’ex premier Wen Jiabao sono i più noti personaggi che avrebbero esportato capitali cinesi in paradisi fiscali offshore. È quanto emerge da quella che è già stata chiamata “Chinaleaks”, un’ampia inchiesta dell’International Consortium of Investigative Journalists, il network globale di giornalisti investigativi legato al Center for Public Integrity (Icij) Usa.

L’analisi incrociata di ben 2,5 milioni di files, cominciata nel 2012, rivela nomi e cognomi collegati a circa 100mila aziende domiciliate in 10 giurisdizioni offshore. Emerge così che circa 37mila cittadini della “Grande Cina” (Repubblica Popolare, Hong Kong e Taiwan) si servono o si servivano dell’intermediazione dalle principali banche internazionali – tra cui UBS, Credit Suisse e Deutsche Bank – per aprire holdings, trust e società di varia natura nelle Isole Vergini inglesi, a Samoa e in altri luoghi dove vige la massima segretezza in materia finanziaria.

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Le rivelazioni appaiono decisamente in continuità con i precedenti “scoop” di Bloomberg e New York Times, che prendevano di mira le ricchezze delle famiglie Xi e Wen (l’inchiesta sul secondo caso è valsa il Pulitzer ai suoi autori). Ampliano però notevolmente lo spettro d’indagine, esponendo alla luce del sole “principini rossi” (figli o discendenti dei pezzi grossi del Partito) o imprenditori di grido che, puntualmente e con continuità, mettono le proprie fortune in solidi e occulti forzieri all’estero.

Prendi i soldi e scappa, insomma. Il che non configura necessariamente reato, ma quando l’élite inizia ad accumulare ricchezze lontano dal Renminbi patrio, non mostra esattamente soverchia fiducia nella stabilità economica e monetaria del proprio Paese.

Secondo alcune stime, tra i mille e i 4mila miliardi dollari in beni non identificati hanno lasciato la Cina dal 2000. Un sondaggio del 2013 tra oltre duecento banchieri e professionisti offshore ha rilevato che “la domanda cinese” è il fattore chiave nella crescita del settore. “La Cina sarà il più importante luogo per raccogliere clienti nei prossimi cinque anni”, ha detto in quell’occasione il capo di una società di servizi delle Isole Vergini.

Pochi giorni fa, le autorità di Pechino hanno stabilito che i “funzionari nudi” – cioè quelli che hanno familiari e ricchezze all’estero – non potranno più fare carriera in Cina. Un monito e, forse, un mettere le mani avanti. Perché la questione, si capisce, è estremamente sensibile dal punto di vista politico: mentre la nuova leadership lancia la campagna anticorruzione “contro le tigri e le mosche” (leggi, pesci grossi e piccoli) e l’economia cinese rallenta, si scopre che ai piani alti del potere (o nel suo guanxi) c’è chi si mette al riparo da eventuali burrasche.

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Tra i nomi “hot” che compaiono nell’inchiesta, ecco Deng Jiagui, il cognato di Xi Jinping, che aveva al 2008 il 50 per cento di una compagnia immobiliare registrata alle Isole Vergini. Sempre fino al 2008 e sempre alle Isole Vergini, Wen Yunsong, il figlio dell’ex premier Wen Jiabao, aveva una società di consulenza, mentre le rivelazioni confermano che sua sorella, Wen Ruchun (nota anche come Lily Chang) e il di lei marito, Liu Chunhang, possedevano un’altra consulting firm già al centro di un caso creato dal New York Times. La società risulta infatti essere ampiamente foraggiata da JP Morgan Chese, il che fa nascere il sospetto che la coppia Wen-Liu abbia compiuto qualche favoritismo nei confronti della società finanziaria nelle sue operazioni in Cina.

Altri nomi di grido sono discendenti o parenti del “piccolo timoniere” Deng Xiaoping, dell’ex premier Li Peng e dell’ex presidente Hu Jintao, nonché imprenditori sulla cresta dell’onda, come i fondatori del gigante internet Tencent – Ma Huateng e Zhang Zhihong – e la miliardaria del mattone Zhang Xin, fondatrice dell’immobiliare Soho.

L’ex premier Wen Jiabao, già “volto buono” del potere cinese durante lo scorso decennio (era lui che veniva puntualmente spedito sul luogo di qualche disgrazia per consolare e rassicurare), aveva prevenuto le rivelazoni odierne qualche giorno fa, quando aveva scritto al columnist di un giornale di Hong Kong di non c’entrare nulla con i 2,7 miliardi di dollari accumulati dalla propria famiglia durante il suo mandato: “Voglio fare l’ultimo viaggio in questo mondo per bene. Sono venuto al mondo a mani nude e voglio lasciarlo da uomo pulito”, scriveva Wen.

Al tempo del suo pensionamento, nel marzo del 2013, aveva auspicato di “essere dimenticato”. Non gli è andata bene. A dire il vero, ci sarebbe un documento del dipartimento di Stato Usa – rivelato da Wikileaks e risalente al 2007 – che lo solleverebbe da responsabilità troppo dirette e che susciterebbe anche qualche simpatia nei suoi confronti. In quell’occasione, una fonte anonima rivelava come Wen fosse “disgustato dalle attività della propria famiglia” e che “la moglie e i figli di Wen hanno la reputazione di persone che possono ‘aggiustare le cose’ per il giusto prezzo”. Secondo il documento, i parenti dell’ex premier “non prendono necessariamente tangenti, [ma] tendono a fatturare esorbitanti spese di consulenza”. Povero Wen. Resta il fatto che i potenti cinesi, quando si tratta di famiglia, preferiscono spesso distogliere lo sguardo.

I dati emersi riguardano il passato, il che non sminuirebbe l’odierna campagna di “pulizia” messa in pratica dal presidente Xi. Ma si innestano comunque su una società dove le contraddizioni si fanno violente, con buona pace dei richiami ai rinnovati valori confuciani o patri (l’attuale ondata nazionalista è letta da diversi osservatori come un’operazione a uso soprattutto interno: non è un buon cinese, è nemico della patria, chi ruba ed è corrotto).

Il concetto di zhongcheng è qualcosa di più di “onestà”: c’è implicato il concetto di lealtà, devozione, affidabilità. Adesione a tutto un sistema di valori, che tengono insieme la società. Una amica cinese ci ha comunicato ieri che nessuno in Cina ha zhongcheng, lei compresa. Nessuno è innocente.



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