Il treno per Auschwitz

[note color=”000000″]In occasione del 27 gennaio, Giorno della Memoria, Q Code inaugura una nuova sezione, “Storia e memoria”. Ogni mese, in questo spazio, racconteremo “storie nella storia”: storie di vita che incrociano, in uno o più momenti, la Storia con la S maiuscola. Parleremo anche di memoria, intesa come memoria storica, collettiva, personale, memoria costruita o decostruita, per indagare le diverse sfumature di un processo che è tutto tranne che neutro.[/note]

 

Che senso hanno i “viaggi della memoria” che portano migliaia di studenti nei luoghi dell’orrore della Storia del Novecento? Alcune risposte sono negli sguardi dei ragazzi di ritorno dall’esperienza, altre nelle loro azioni. Il racconto di un viaggio ad Auschwitz e di un pomeriggio alla Risiera di San Sabba.

di Giulia Bondi

 

27 gennaio 2104 – A Trieste, il Civico museo della Risiera di San Sabba è un luogo spoglio e tragico. A chi lo visita in una giornata di sole, con le ombre dei muri di mattoni rossi proiettate sul cemento del cortile, può anche capitare di distrarsi. Il pensiero è quasi disgustoso, eppure anche all’orrore si rischia di fare l’abitudine.

E allora, a cosa servono i luoghi di memoria, e i viaggi che, ogni anno, portano migliaia di studenti a vedere con i propri occhi la follia e la violenza del nazifascismo in Italia e in Europa? A cosa servono, se può capitare di distrarsi anche alla Risiera, l’unico dei lager italiani che fu anche campo di sterminio, solcando il cemento di un cortile e immaginando l’ombra della ciminiera?

 

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Alla Risiera, l’ultima sosta prima dell’uscita è una sala ristrutturata, allestita come museo. Immagini alle pareti, documenti, e infine due teche di vetro, una di fronte all’altra. La voce dell’audioguida invita a sostarci davanti, e racconta la storia degli oggetti che contengono.

Nella prima teca c’è una mazza chiodata, un’arma antica, già in dotazione all’esercito austroungarico. Nazisti e fascisti la usavano per le torture, e i morti di botte poi finivano su per il camino, per farne sparire le tracce.

In mostra però non c’è che una copia, fatta da un artigiano negli anni Novanta, e donata al museo dopo che l’originale fu rubato. Accanto alla copia, il volantino con le svastiche con cui un gruppo filonazista rivendicò il furto.

 

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Nella seconda teca c’è una lunga striscia di carta da pacchi, con ancora i segni delle piegature a fisarmonica. Sopra ci sono i nomi di 50 donne. A scriverli, con la matita copiativa, fu una partigiana istriana, Rosalia Poropat, nome di battaglia Albina. La matita e la carta se le era procurate fortunosamente, oggetti rari per il campo di Ravensbruck.

I nomi, cognomi e indirizzi erano quelli delle compagne di prigionia, che con lei, catturata in Venezia Giulia e spedita in Germania, dividevano la baracca. Albina sopravvive al lager e con lei la sua striscia, nascosta e trafugata fino in Italia, e poi ancora tenuta nascosta anche ad amici e parenti. É solo nel 2000 che la donna decide di donarla al museo.

 

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Cinque anni dopo, Francesco, tredici anni, arriva in visita con la sua classe di terza media. Legge tutti i nomi, uno per uno. Arriva a “Figini Ines, via Tommaso Grossi, Como”. “Scusi prof”, sussurra, “ma non è la Ines che è venuta in classe a testimoniare della sua deportazione, a farci vedere il tatuaggio?”. È lei, Ines. È viva. Non sa della striscia, non sa nemmeno che la sua compagna è sopravvissuta. Anche Albina è ancora viva. Grazie a Francesco, le due donne si riabbracciano.

Non tutti gli studenti possono fare scoperte come quella di Francesco, ma certo molti di loro scoprono abissi, paure e confronti con la storia e la violenza dell’oggi. Sono decine di migliaia i ragazzi che ogni anno si recano in visita al campo di concentramento di Auschwitz Birkenau. In tutto i visitatori sono mezzo milione l’anno. Dal 1979, il campo è anche Patrimonio dell’Umanità secondo l’Unesco. Perché all’umanità futura, volente o nolente, si lascia in eredità anche l’orrore.

 

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Da Carpi, con i viaggi organizzati dalla Fondazione Fossoli, partono ogni anno circa 600 studenti delle scuole superiori della provincia di Modena. Il loro treno ripercorre simbolicamente lo stesso itinerario che fu anche di Primo Levi, deportato in Polonia dopo essere stato internato al campo di concentramento di Fossoli.

Alla partenza del convoglio l’emozione è palpabile. “Confesso che c’è anche un po’ di paura”, ammette Luca Gherardi, ventisettenne vicesindaco del paese di Camposanto, nella Bassa modenese. Siamo a gennaio 2012, il terremoto che scuoterà il suo paese e catapulterà gli amministratori nell’emergenza, prima, e nella fatica della ricostruzione, poi, è ancora al di fuori da ogni immaginazione.

“Baruch HaShem”, Benedetto sia il Signore, esordisce il rabbino di Modena, Beniamino Goldstein. “Visiterete anche la Cracovia ebraica – dice – e vi renderete conto del lato suicida della Shoah: l’Europa, con lo sterminio, ha mutilato se stessa”. “Il razzismo è una truffa, usata dal potere per dominarvi”, dice nel suo discorso di saluto Lorenzo Bertucelli, presidente della Fondazione ex campo Fossoli.

 

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I ragazzi ascoltano seri e silenziosi nelle giacche a vento colorate, prima di cominciare a trascinare i loro enormi trolley verso il treno che li porterà fino a Cracovia. Nei vagoni, anche quelli degli accompagnatori adulti, c’è un’atmosfera da gita. “Fa un caldo da forno crematorio”, dice qualcuno, e subito si corregge: “A microonde”.

Uno scompartimento è adibito a biblioteca, Primo Levi, Anne Frank, Maus, il fumetto di Art Spiegelmann, e qualche libro dei due scrittori che viaggiano con i ragazzi, Paolo Nori e Carlo Lucarelli.

Fuori dai finestrini si srotolano campi pianeggianti, poi le Alpi, e paesi ordinati che ogni minuto sanno un po’ di più di Mitteleuropa. In Polonia, il colore diventa il bianco della neve che ricopre i campi e le sponde della Vistola.

 

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Il 27 gennaio, nel 67esimo anniversario della liberazione del campo, si parte per Birkenau. Dai finestrini del pullman si vede il sole sorgere lentamente sulla pianura, sulle case, sui paesi satellite di Cracovia.

“Inizialmente l’idea di Eichmann era ‘ci serve una terra da mettergli sotto i piedi’. Era l’ideologia degli spostamenti di popolazione, dei territori etnicamente omogenei”, spiega ai compagni di viaggio lo storico Carlo Saletti, autore di una guida al campo di Auschwitz edita da Marsilio (Visitare Auschwitz, 2011, di Carlo Saletti e Frediano Sessi). “Dal 1941 – continua – la soluzione diventa ‘terra da mettergli sopra la testa’, ma le camere a gas arrivano ancora dopo’”.

La strada che porta ad Auschwitz è incredibilmente normale, cartelli pubblicitari, multisala e centri commerciali. A due passi dalla Judenrampe, dove arrivavano i convogli dei deportati, tre villette con barbecue, altalene e cucce dei cani nel giardino.

 

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L’ingresso di Birkenau è un parcheggio per i pullman e un’immagine vista in mille film. Non fosse per il filo spinato sembrerebbe archeologia industriale, ai lati due stecche di mattoni rossi a un piano, al centro la torretta con l’arcata sotto cui passano i binari, un chilometro che poi finisce in un memoriale di metallo e cemento.

Ai lati, un’immensa distesa di rovine. La maggior parte delle baracche era in legno, stalle da 52 cavalli trasformate in alloggi per centinaia. Sono crollate quasi tutte, al loro posto restano fondamenta di mattoni e comignoli delle stufe. In alcune, invece, si entra, a vedere l’orrenda promiscuità delle latrine, i muri coperti di graffiti, i letti di legno dove dormivano anche in cinque o sei per piano. Su uno, c’è un piccolo fiore appassito. Fa freddo, qualcuno dice: “Pensa a loro, con pigiami di tela e zoccoli di legno”.

È il 27 gennaio, anniversario dell’arrivo dei russi. I prigionieri rimasti, quelli che non riuscirono a partire per essere trasferiti a ovest, quando li videro ebbero paura. Sembravano solo altri uomini in divisa pronti a impartire ordini assurdi. Oggi, in divisa ci sono solo una giovane bionda, forse israeliana, e gli addetti del museo.

I reduci polacchi, foulard a righe bianche e azzurre e una P rossa, depongono fiori e ceri. Fanno tenerezza questi nonni, che allora erano bambini. Si avvicinano alle lapidi di bronzo nei loro cappotti e pellicce, due o tre signori per volta, assediati da decine di obiettivi fotografici.

Quando non ci saranno più loro, gli unici testimoni viventi saranno le betulle. La terra è ricca di silicio, ha spiegato la guida, e le betulle vivono anche cent’anni.

 

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A pochi passi dal memoriale c’è la ZentralSauna, dove si vede, dagli spogliatoi alle camere a gas, l’intero meccanismo della morte. C’è il pavimento originale ricoperto da lastre di vetro, le scritte sbiadite all’ingresso delle stanze, le autoclavi di metallo per disinfettare gli abiti dei deportati e rivenderli nel Reich.

L’enorme vastità del campo, le decine di baracche, le migliaia di corpi dati alle fiamme, i dati e le informazioni si affastellano in testa. Ci si trova a pensare ai prigionieri come numeri. Fino all’ultima sala della Sauna, dove s’incrocia lo sguardo in bianco e nero di un giovanotto spavaldo, con la sigaretta in bocca, e sembra di sentire suonare il violino dei tre zingarelli fotografati durante una festa di paese.

Altre immagini, esposte su pannelli neri, ritraggono neonati paffuti e nudi, compagnie di amici in riva al fiume, ragazze in costume da bagno: circa 2400 scatti, foto ricordo, quasi tutte di prigionieri provenienti da Bedzin, un paese a 60 km da Auschwitz. La valigia che le custodiva è sfuggita alle fiamme appiccate ai magazzini del campo dai nazisti in fuga. Davanti a questi ricordi così normali, anche chi finora non aveva ceduto ammutolisce, o piange.

 

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Ne parlerà Carlo Lucarelli, la sera, di come ognuno, per comprendere Auschwitz e Birkenau, abbia bisogno di trovare il proprio “punto di rottura”. Il suo, dice, è stato una nenia yiddish, Oyfn Pripetchik. “Ho immaginato che le donne ungheresi la cantassero ai bambini, per tenerli calmi, sotto le betulle”, racconta lo scrittore.

La domanda è perché ricordare, e da scrittore, Lucarelli risponde con le storie. Storie di orgoglio e resistenza. Quella di Franziska Mann, una danzatrice polacca che “prima di entrare nella camera a gas si è ribellata contro il suo aguzzino tirandogli in faccia una scarpa” o, secondo altre versioni, sparandogli con la sua stessa pistola. E quella dei prigionieri-musicisti autori di Die Moorsoldaten, i soldati del fango, diventata un inno della Resistenza europea.

Il giorno dopo si visita Auschwitz I. Nell’attesa si scambiano impressioni. Per Daniela la cosa più choccante sono state le foto alla fine della Sauna: “Non parlavano, ma dicevano tanto”. La sua compagna di classe, Sara, confessa: “Quando ci hanno mostrato lo stagno in cui versavano le ceneri, avevo ancora davanti agli occhi quei volti, quegli sguardi in bianco e nero”.

 

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Ripensando a Birkenau, Auschwitz I è quasi rassicurante. Con le baracche a due piani trasformate in spazi espositivi, potrebbe sembrare la periferia di una metropoli europea, non fosse per il filo spinato, la scritta Arbeit macht frei e la ciminiera del crematorio.

“L’edificio che visitiamo – spiega ancora lo storico Saletti – è stato un magazzino, poi un crematorio, un obitorio e una camera a gas. Infine, un rifugio antiaereo. La ciminiera è rimasta come simbolo, ma è pericoloso: è a questi piccoli falsi – sostiene – che si appigliano i negazionisti”. Non teme di essere provocatorio, Saletti, il suo obiettivo è fare riflettere, andare oltre i rituali rassicuranti. Racconta dell’incidente diplomatico che vide protagonista, negli anni ’80, il convento delle carmelitane sorto a due passi dal lager: preghiere e croci che parvero fuori luogo a molti ebrei.

Il blocco 11, al piano terra, è un’infilata di minuscole celle, i bunker della fame. Si visitano in fila indiana, appena il tempo di gettare uno sguardo. Il piano superiore, invece, è deserto. Foto e documenti raccontano episodi di resistenza, tentativi di fuga, rappresaglie, la rivolta del Sonderkommando, quando i prigionieri addetti all’odioso lavoro di svuotare dai cadaveri le camere a gas riuscirono a danneggiare il crematorio IV.

Non è la narrazione che va per la maggiore, ma ci fu chi ebbe l’opportunità di ribellarsi. Anche simbolicamente, come le 230 detenute politiche francesi del convoglio “24 gennaio 1943”, tra cui la futura scrittrice Charlotte Delbo, che nel campo ci entrarono cantando la Marsigliese.

 

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Nel cortile tra i blocchi 10 e 11 gli studenti sono rapiti dall’apparizione di tre signore. “Avevamo fame e freddo”, racconta loro Irena, in una lingua mista di inglese, tedesco, polacco e gesti delle dita. Ha quasi 80 anni, i capelli tinti, più sorridente di quanto ci si aspetterebbe. Insieme a due compagne depone un cero davanti al “Muro della morte”.

Irena, Barbara e Danuta vissero ad Auschwitz per 5 mesi, all’età di 10 anni, poi furono trasferite in un campo in Germania. I foulard dicono che sono deportate polacche, l’indirizzo che lasciano per farsi spedire le foto è di Varsavia. “Mia madre è morta qui”, dice Barbara. Danuta tace.

 

 

Teche e vetrine si susseguono. Foto segnaletiche, triangoli rossi, stelle di David. Abitini infantili, stuoie per preghiera, stoviglie, occhiali, lattine vuote di gas Zyklon B, lucido da scarpe, gambe di legno, busti e protesi, valigie, montagne di capelli, e accanto un campione dei tessuti che con essi si tessevano. Il padiglione che li raccoglie si chiama “Material proofs of crimes”.

A Birkenau, per una fiaccolata conclusiva, alcuni studenti hanno preparato brani da leggere, da Etty Hillesum a Wyslava Szimborska. “Sono piombati i vagoni, che trasportano i nomi…”, legge commossa una ragazza.

E di nomi, e poco più, è fatto oggi il quartiere ebraico di Cracovia. Ci sono ristoranti kosher e negozi di musica klezmer, librerie piene di volumi in inglese sull’ebraismo. Le vie si chiamano Esther, Josef e Izaak. Di decenni di storia sono rimaste le sinagoghe deserte e le lapidi del cimitero. Il resto sono negozi vintage e locali alla moda.

 

 

 

 

Sul treno, al ritorno, c’è chi si ubriaca, chi parla del viaggio, chi scambia contatti facebook. Nel campo, dice Gabriele, 18 anni, dell’istituto professionale di Sassuolo, “non ho voluto scattare fotografie, perché non raccontano abbastanza”. Elia ha un fratello piccolo, vedere esposti abiti e scarpine infantili lo ha impressionato.

“Erano menti malate, i nazisti”, commenta Gabriele. Andrea, che ha un anno in più, non è d’accordo: “Non poteva essere malato tutto un popolo. Qui si tratta di odio e di ideali sbagliati”. Cosa racconterete ai compagni? “Devono venire di persona”, spiega Manuel, “perché né i libri né le conferenze possono darti queste sensazioni”.

C’è il rischio che queste tragedie si ripetano? “La storia dovrebbe insegnare a non commettere gli stessi errori”, risponde Andrea. Secondo Tina, la giovane prof, “non c’è più Hitler, ma esistono l’antisemitismo, la xenofobia, l’attacco a chi è diverso”.

Il miracolo del treno, comunque, è che qui è consentito parlare di cose serie. “Abbiamo discusso anche di Israele”, spiega Andrea, “un tema delicato, ma certamente legato ai sensi di colpa dell’Europa per la Shoah”.

L’obiettivo del viaggio (la decima edizione, nel 2014, sarà dall’1 al 6 aprile), “è mettere in moto, oltre al meccanismo emotivo, anche quello congnitivo”, spiega Marzia Luppi della Fondazione Fossoli: “I ragazzi partono da qui per approdare anche a una consapevolezza diversa del contemporaneo. Quando si sedimentano le emozioni chiediamo loro di raccontare il viaggio ai compagni, di inserirlo in un progetto che coinvolga il resto della scuola”.

Sabrina, di Maranello, desiderava vedere Auschwitz dalla quinta elementare, dalla prima visita al campo di Fossoli. Si entusiasma ricordando il nonno, “deportato a Dusseldorf. Sono cresciuta con le sue storie, di una guerra che non si sapeva contro chi era, diceva lui. Era timido – ricorda Sabrina – ma poi felice di poter raccontare. Fingeva di non sapere il tedesco, ma a volte, nel sonno, lo sentivamo gridare in quella lingua”.

Il suo compagno di scuola, Francesco, ha gli occhiali e viene dal sud. Definisce il viaggio “coinvolgente e sconvolgente, di grande impatto emotivo. Poi però – aggiunge – bisogna anche studiare per conoscere la storia”.

 

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Nella carrozza ristorante si parla di questo. La cultura è un antidoto alla barbarie? Secondo Saletti no, anzi: spesso la cultura si vende al potere e lo spalleggia. “La risposta è nell’intelligenza, nella comprensione”, chiarisce lo scrittore Paolo Nori, e la discussione va sul senso del viaggio.

“Bisogna anche cominciare a chiedersi”, riprende Saletti, “se non sia addirittura oltraggioso andare nei campi di concentramento con queste forme di turismo di massa”. “Ma noi non ci andiamo in massa”, replica lo scrittore: “Noi ci siamo andati insieme”.

 
 



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