Bankitalia e dintorni

Banca d’Italia viene ricapitalizzata a 7,6 miliardi di euro. Un salto enorme, ma il punto dirimente e se lo abbiamo usato per qualcosa di buono per la collettività

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/08/Clara-Capelli-NFC-Tunis-2013-Picture.jpg[/author_image] [author_info]di Clara Capelli, da Beirut. Dottoranda in economia dello sviluppo con la passione per la lingua araba, si occupa di mercato del lavoro in Nord Africa e Medio Oriente. Ha lavorato in Cisgiordania, Libano e Tunisia, ma non ha ancora capito quale Paese le piaccia di più. [/author_info] [/author]

4 febbraio 2014 – Le incresciose scene che hanno avuto luogo in Senato il 29 gennaio hanno in una certa misura oscurato il contenuto del decreto Imu-Bankitalia. Le misure riguardanti la ricapitalizzazione e le quote di Banca d’Italia meritano particolare attenzione. Sono state definite come un generoso dono alle banche con risorse sottratte sfacciatamente dalle tasche dei cittadini. L’argomento è assai complesso e articolato, ma un po’ di chiarezza può essere comunque fatta per capire cosa questo provvedimento comporti effettivamente.

Innanzitutto, la Banca d’Italia è un istituto di diritto pubblico dal 1936 con il compito di vigilare sulle banche italiane e il monopolio di emissione della moneta (le cose sono cambiate con l’introduzione dell’euro, ma questa è un’altra storia). I suoi azionisti sono per circa il 95% istituti bancari e assicurativi privati, il resto è detenuto da INPS e INAIL.  Questo assetto è il risultato delle privatizzazioni e fusioni che hanno interessato il settore a partire dagli anni Novanta (un’altra storia ancora). I principali azionisti sono Unicredit  e Intesa San Paolo, che controllano rispettivamente il 40,2 % e il 22% delle quote.

Il valore di Banca d’Italia era invariato dal 1936,pressappoco equivalente a 156 mila euro. Un valore puramente simbolico, anche perché le quote non erano commerciabili, quindi i detentori non potevano fare alcuna azione di compravendita. Con l’approvazione del decreto, alcuni significativi cambiamenti vengono introdotti.

People enter the Bank of Italy in Rome w

In primo luogo Banca d’Italia viene ricapitalizzata a 7,6 miliardi di euro. Un salto enorme, da capogiro. Senza annoiare troppo con i tecnicismi contabili, basti sapere che si è attinto alle cosiddette “riserve statutarie”, una sorta di risparmio che viene accantonato (secondo statuto, quindi in modo obbligatorio) a titolo precauzionale e come base per le proprie attività. Pertanto la ricapitalizzazione in sé non comporterà alcun onere aggiuntivo per i contribuenti, si tratta di qualcosa che già avevamo. Il punto dirimente e se lo abbiamo usato per qualcosa di buono per la collettività.

Non è finita qui. Il decreto prevede infatti che nessun istituto possa controllare più del 3% di Banca d’Italia e che a tale fine sia ora possibile vendere e comparare le quote partecipative. Cosa faranno Unicredit, Intesa San Paolo e gli altri delle azioni in eccedenza? Banca d’Italia si impegna a riacquistarle temporaneamente, di fatto trasferendo liquidità a questi istituti. Di nuovo senza scendere troppo nei dettagli,  con queste due operazioni le banche italiane migliorano la propria posizione patrimoniale senza passare dai mercati finanziari, così da potersi presentare più solide, col vestito buono e ben pettinate ai vari controlli previsti a partire da quest’anno in sede europea.

Anche il governo dovrebbe beneficiare da questo provvedimento. Quando il valore del proprio patrimonio aumenta, una banca realizza una plusvalenza (o capital gain), la quale a sua volta è soggetta a tassazione. Si calcola che in questo modo il gettito fiscale ammonterebbe a circa 1-1,5 miliardi di euro, una cifra irrisoria se comparata al bilancio dello Stato ma che permetterebbe di trovare la copertura per non far pagare la seconda rata dell’IMU (molto si dovrebbe discutere sul pareggio di bilancio, ma anche questa è un’altra storia).Tanto più che l’aliquota è stata fissata al 12%, anziché al 20 % applicato per legge.

Il punto più oscuro (e meno discusso) riguarda i dividendi. Come ogni società per azioni, la Banca d’Italia paga ogni anno un dividendo per remunerare la quota detenuta dai suoi “soci. Prima del decreto si tratta di una cifra irrisoria, simbolica. A seguito della capitalizzazione – e con una remunerazione massima (il che significa che potrebbe essere anche inferiore) fissata al 6% del valore nominale delle azioni – il valore dei dividendi distribuiti raggiungerebbe quota 450 milioni di euro (contro circa 70 milioni in passato). Questa cifra andrebbe sottratta alle tasse raccolte con le plusvalenze e – negli anni successivi – rappresenterà una spesa ulteriore nel bilancio pubblico. E visto che la coperta è stata (ulteriormente) raccorciata dal vincolo del pareggio di bilancio, da qualche parte bisognerà tagliare.

Insomma, le zie non dovrebbero pagare la seconda rata dell’IMU e inoltre le banche si ricapitalizzano senza troppa fatica, per altro ricavando dividendi potenzialmente più alti in futuro. In diversi gridano al complotto dei poteri forti. Altri invece rivendicano la necessità di rafforzare il sistema bancario italiano il quale per diverse ragioni (anche qui, altra lunga storia) non gode di buona salute. Si può guardare alle banche come accrocchi di interessi parassiti a danno della comunità; si può considerarle come istituti che dovrebbero – semplifico – concedere credito all’economia reale, quella che produce i beni e i servizi che consumiamo quotidianamente e che ci dovrebbe assumere e pagare gli stipendi. Dovrebbero, il condizionale è d’obbligo. Ma questa è di nuovo un’altra storia. Magari la si racconterà un’altra volta.



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