Hong Kong al bivio

Benny Tai, il docente universitario che ha promesso di cambiare il centro finanziario dell’Estremo Oriente

di Lorenzo Bagnoli

17 febbraio 2014 – Difficile pensare a Benny Tai come a un pericoloso capopopolo pronto a trasformare il centro di Hong Kong in una bolgia. Eppure qualcuno lo vede così, un Masaniello d’Oriente. Difficile pensare che ci siano tracce di violenza nelle pagine dei libri accatastati in ogni angolo del suo studiolo aggrappato al decimo piano della Hong Kong university.

In mezzo alla stanza, emerge una piccola panchina di legno dove il prof riceve i suoi studenti. Se fuori non si vedessero nuvole gravide di pioggia a mezza altezza, si potrebbe pensare di essere nella San Francisco dei favolosi Sessanta. Questo professore di cultura politica e di diritto costituzionale ha lanciato il guanto della sfida al governo di Hong Kong e a Pechino.

Il 1 luglio 2014 manderà in tilt la città se la capitale della Repubblica popolare non rispetterà i patti stretti con “il porto fragrante” (per approfondire, Sfida al dragone). “Ci hanno promesso già nel 2005 il suffragio universale. Non l’abbiamo ottenuto – racconta, impassibile -. Questo è l’anno decisivo perché lo si possa ottenere nel 2017. Se non rispetteranno i fatti, siamo pronti a immobilizzare il centro della città in modo nonviolento. Ci arresteranno, ma altri prenderanno il nostro posto, fino a che Pechino non dovrà cederà. Dobbiamo alzare la tensione e massimizzare il profitto: è una partita a scacchi da giocare fino all’ultima mossa”.

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Il professor Benny Tai nello studio della Hong Kong University

Avete programmato l’occupazione del centro di Hong Kong per il primo luglio. Perché proprio quest’anno se si vota il 2017?

Le elezioni saranno nel 2017 ma nel 2016 cambierà la legislatura. Dal passato abbiamo imparato che per cambiare la legge elettorale servono tre anni. Siamo già in ritardo: se seguiamo tutti i passaggi dovremmo iniziare quest’anno ma il chief executive (il super sindaco di Hong Kong, una sorta di premier della città, a capo del LegCo, il parlamento locale, ndr) deve affrontare il tema e non passare la patata bollente a Pechino come ha sempre fatto.

 Il vostro movimento si chiama “Occupy central with love and peace”. Come pensa di garantire la nonviolenza del movimento?

Abbiamo una lunga tradizione di nonviolenza a Hong Kong, cominciata con l’accoglienza dei manifestanti di piazza Tienanmen del 1989 e proseguita fino alle manifestazioni dei 100 mila studenti che si opponevano lo scorso anno ad una riforma dei programmi scolastici. Sono i gruppi pro governo che stanno utilizzando delle azioni più violente per provocare i possibili facinorosi. Da parte nostra, stiamo facendo degli workshop per regolare le emozioni e controllare la violenza anche con degli psicologi. Stiamo cercando di fare tutto questo per aiutare il cambiamento degli attivisti: se vogliono cambiare la città devono cambiare prima al loro interno. Io per primo. Abbiamo sei mesi di tempo per creare questo spirito.

Teme che il prezzo di questa disobbedienza possa essere troppo alto? Teme che Pachino possa togliere il regime agevolato di Hong Kong se alzaste troppo la tensione?

No, il gioco vale la candela. Ci sono due condizioni che mi fanno pensare che non siamo più all’epoca di Tienanmen. Uno, il nuovo leader Xi Jinping (segretario generale del Partito comunista e presidente della Repubblica popolare cinese dal 14 marzo 2013, ndr) non è Deng Xiaoping (tra i membri dell’Assemblea del popolo che ha spinto per una dura repressione delle manifestazioni di piazza Tienanmen, ndr). La gente ha paura che il 4 giugno potrebbe ripetersi. Den Xiaoping doveva mantenere la tensione alta: era un rivoluzionario molto pragmatico. Xi è nato dopo la rivoluzione, in un clima molto diverso, è un amministratore. Come prende le decisioni? Solo con l’analisi costi benefici, non con la rivoluzione. Secondo, Hong Kong non è Pechino. È una città internazionale dove la gente è abituata alle nostre forme di libertà: impossibile porre gli stessi controlli del 4 giugno 1989.

Il primo a sinistra è Robert Chow, giornalista, tra i leader di Silent majority

Il primo a sinistra è Robert Chow, giornalista, tra i leader di Silent majority

Hutchison house, Central, Hong Kong. Robert Chow arriva al bar con il computer sottobraccio. L’aria sbrigativa e poco formale, da cronista d’esperienza. Paradossale che il luogo dell’intervista per parlare del suo movimento nato per contrastare Benny Tai sia nella valle dei templi del capitalismo made in Hong Kong, là dove Occupy Central desidera colpire. Silent majority, “maggioranza silenziosa”, è il nome del gruppo che spera di raccogliere la voce di chi di solito non ficca il naso in quisquilie politiche. Insieme ad altri sei intellettuali, tutti sopra i 60 anni, Chow ha rinunciato al suo buen retiro  nella Cina continentale “per amore del Paese”. “Andiamo – sbotta – il nostro non è un movimento politico, è un movimento per salvarci le chiappe. Faccio il giornalista da 40 anni, conosco la mia gente: noi vogliamo democrazia senza caos. Che cosa accadrà quando organizzeranno questi sit in? Alla prima ondata saranno arrestati, senza ottenere nulla. Chiedono di aiutare l’occupazione abusiva in modo che la polizia non possa mettere tutti in cella. Vogliono bloccare le strade, impedire che i ragazzi vadano a scuola, che la borsa apra. Quello che vogliono è uno sciopero generale. E a quel punto sarà Pechino a chiedere conto”.

Solo che dalla capitale promettono riforme dal 2005 e finora nemmeno l’ombra. Che mezzi ci sono per chiedere un cambiamento?

A Hong Kong ci sono due partiti che si dividono il potere e al momento può fare nulla: nessuno ha la maggioranza per farlo. Da Pechino non concederanno aperture finché noi non rispetteremo delle scadenze che ci hanno dato. Pechino vuole iniziare a trattare e noi gli puntiamo la pistola alla testa e gli chiediamo tutto subito. E perché? Solo perché abbiamo fame e ci sentiamo legittimati a rubare. Non si fa così. In tutto il mondo la maggioranza silenziosa è quella che soffre per le decisioni prese da una minoranza rumorosa. Questa è la prima volta in cui stiamo cercando di organizzare un movimento per dire “Stop”, fermatevi un momento, ragioniamo. Se avremo successo terremo la gente lontana dalle strade non ci sarà anarchia non ci sarà nessuna disobbedienza civile. Perché non vogliamo la democrazia? No, non volgiamo solo il caos.

Perché dice che il suo non è un movimento politico?

L’occupazione della città non è un fatto politico: riguarda la vivibilità, la sicurezza e la salute economica della nostra città. Molti anni fa ho letto un libro che parlava di Al Qaeda e dell’11 settembre. Tutto l’attacco era stato pensato per fare avere paura agli Usa, perché non si sentissero più immuni dagli attacchi esterni. Cos’è successo dopo? I fondamentalisti hanno ottenuto quello che volevano? Qualcuno di Al Qaeda ha detto “almeno abbiamo ucciso qualche americano, almeno gli abbiamo fatto paura”. Ma i leader non pensano alle conseguenze che la loro guerra folle ha provocato: quante persone sono state uccise dopo in Afghanistan?

Fermare il traffico non è la stessa cosa che abbattere le Torri Gemelle con un aereo.

D’accordo. Ma lasciate che la gente parli, che si esprima. Ascoltatela. Non fatele subire tutto passivamente. Lo diciamo agli attivisti di Occupy Central. E guardate se dopo ci sarà Occupy Mong Kok, Occupy Lan Kwai Fong e così via negli altri quartieri di Hong Kong. Vedrete se sarete in grado di controllarli. Io dico di no e sarà il caos.

Chi può controllarli?

Noi ci stiamo provando, avvisando chi vuole partecipare dei rischi che si corrono.

Qualche partito politico sta cercando di cavalcarvi?

Certo non sono andato a elemosinare il loro appoggio, ma qualcuno sì. D’altronde il “nemico del tuo nemico è tuo amico”, no? Penso di aver fatto la cosa giusta ad imbarcarmi in questa battaglia. Se fallirò, me ne andrò e lascerò Hong Kong per ritirarmi con la mia famiglia. Ma ora resto qui a difendere la mia casa.



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