Su “la grande bellezza”

Il film di Paolo Sorrentino potrebbe vedersi aggiudicato l’Oscar. Eccone una recensione poco entusiasta.

di Irene Merli

2 marzo 2014 – A un passo dagli Oscar, La grande bellezza di Paolo Sorrentino ha grosse probabilità di aggiungere il premio più importante al suo già nutrito palmares: miglior film straniero ai Golden Globe, miglior film non in lingua inglese ai Bafta, miglior film europeo agli EFTA, con regista e attore principale premiati anch’essi come i migliori d’Europa, illustri nominations ai Goya e ai Cesars.

Quindi, per noi di Q Code, è arrivato il momento dimostrare che abbiamo il coraggio delle nostre opinioni. Sempre, anche quando si parla ” solo” di cinema. E ci sentiamo di dire a voce alta quello che pensiamo del premiatissimo film di Sorrentino, il grande talento creativo e visionario de “Le conseguenze dell’amore”, “L’uomo in più” e de “Il Divo”. Purtroppo per noi, molto più che per il regista che di soddisfazioni ne ha avute a palate, “La grande bellezza” è un’occasione mancata. Un film che poteva essere magnifico ma proprio non ci riesce, perché non ritrae se non per lampi fuggevoli la splendida e opulenta decadenza di Roma. Anzi, di certa società’ romana.

 

01_Toni_Servillo_La_grande_bellezza_foto_di_Gianni_Fiorito

 

Un film è indubbiamente lo sguardo del regista su una storia, un soggetto o una situazione, perciò nulla da dire sul proposito di mostrare la Città Eterna come la vede chi non vi è nato ma vi è solo arrivato. Era così anche per Fellini. “La Dolce Vita”, spesso richiamata da Sorrentino nel suo film – la struttura bozzettistica, le storie incrociate, il finale con la nostalgia d’ innocenza, il suicidio di un personaggio cronologicamente identico – è però tutt’altra cosa. A parte l’immenso squilibrio di bellezza e provocatorietà, tra le due opere, il capolavoro di Fellini ritraeva davvero quello che era la Roma del 1960. Chi lo vede anche oggi non gli trova una sola ruga e capisce cos’erano via Veneto, Cinecittà, i quartieri periferici, i personaggi scintillanti e il sottobosco che popolavano le notti dell’Urbe, il mélange di bellezza, baldorie, ambizioni e miserie di una stagione unica.

La grande bellezza, invece, mostra una serie infinita di feste volgarissime su terrazze dove non c’è’ neppure l’ombra di un ministro o un deputato. Situazione impensabile, quest’ ultima, in una capitale dove aristocrazia, ricchezza, intellettuali e politica sono sempre andati a braccetto su terrazze diverse, ma con lo stesso cocktail sociale.

A questa critica, il regista ha risposto che non poteva mettere tutto nel suo film. Obiezione sensata, ma perché togliere elementi essenziali per la descrizione della disincantata e decadente società romana, e trovarne per prendere in giro l’arte contemporanea che onestamente non connota l’immagine della città piu bella del mondo, un museo a cielo aperto che ha spazi come il Macro e Il Maxxi ma da relativamente poco e comunque non viene identicata per questo?

La vera Marina Abramovic – la performing artist che all’inizio del film viene presentata sostanzialmente come una truffatrice – se fosse stata intervistata da un giornalista del calibro del protagonista, l’avrebbe mangiato in due bocconi, altro che balbettare di ” vibrazioni” come fa l’attrice che ne imita la figura. E se l’ intento era colpire l’arte da party con quotazioni da Borsa l’esempio poteva cadere su altri personaggi, che forse il Nostro non conosce o ha voluto ignorare.

E qui si entra nel merito del peggior difetto de “La grande bellezza”: l’arroganza, lo straripare della regia a dispetto della sceneggiatura. I due personaggi più riusciti, quelli di Carlo Verdone e Sabrina Ferilli, purtroppo non hanno lo spazio che avrebbero meritato a favore di un protagonista, Toni Servillo, che qui in piena sintonia con il suo regista rifà se stesso, quando invece in altri film ha dimostrato grande, profondo talento.

La struttura destrutturata alla maniera di Fellini non regge sul lungo. In certi dialoghi del protagonista con i personaggi femminili interpretati da Galatea Ranzi e Isabella Ferrari traspare anche una discreta dose di misoginia. Certo, alcune scene sono di grande potenza visiva e non le scorderemo: la visita notturna nei palazzi nobiliari in compagnia di uno minuto personaggio che ne custodisce le chiavi, la “santa” che si trascina mani e piedi su una lunghissima scala, la festa dove la Ferilli si presenta con un abito e un trucco davvero felliniani . Sorrentino è comunque un grande regista, la sua cifra stilistica non può non vedersi.

Ma all’uscita resta un po’ di amarezza. Perché proprio chi ama il cinema del regista napoletano si ritrova con alcune bellissime immagini negli occhi, ma la classica sensazione di incompiuta di tanto cinema italiano contemporaneo. Chissà, forse al pubblico e alla critica straniera il film è così piaciuto perché hanno pensato di vedervi il BelPaese del signor B.



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