“Non è tempo di mimose”

Una riflessione sul senso dell’8 marzo, oggi. Per “pensare una giustizia che a partire dalla posizione di una donna sia valida per tutti”

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di Marilisa Malizia

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Noi viviamo in questo momento e questo momento è eccezionale.

Il futuro ci importa che sia imprevisto piuttosto che eccezionale

Carla Lonzi, “Sputiamo su Hegel”

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8 marzo 2014 – Parto da un ricordo. Da bambina, la data dell’8 marzo non la sopportavo. Non le avevo ancora attribuito un significato politico e mi sembrava un’occasione di quelle in cui non è necessario avere l’autorizzazione. Eri autorizzata a fare molte cose quel giorno senza avere l’autorizzazione. Come il giorno del tuo compleanno. Era l’occasione che puntualmente si ripresentava ogni anno per, ad esempio, andare in pizzeria con le amichette e fare tardi. Mi chiedevo perché una data per la tacita autorizzazione. E poi questi pub con una rigida divisione sessuale dello spazio, solo per quel giorno, mi apparivano davvero brutti, con i tavoli di sole ragazze che festeggiavano l’autorizzazione senza autorizzazione e i ragazzi, che l’autorizzazione ce l’avevano sempre, che le guardavano, senza capire, nella loro felicità. Ignoravo per quella sera il ragazzino seduto all’altro tavolo, nonostante fosse mio amico. Mi chiedevo anche per quale ragione l’amichetto che il giorno prima mi aveva detto che non capivo niente e mi avevo messo in imbarazzo dicendo ad alta voce davanti a tutta la classe, così che tutti/e ascoltassero, “Ti faccio vedere io come si fa”, quel giorno, la mattina a scuola, mi portava mimose.

Non capivo, davvero. E poi, le altre donne? Quel giorno mia madre continuava a pulire casa, a rassettare, a cucinare. E anche in quel giorno pesava su di lei lavoro domestico e decisione presa da padre e fratelli di interrompere gli studi, perché, si sapeva, la privazione secolare, una donna che studia era uno spreco. Di denaro, di tempo. Ci sono luoghi in cui la rivolta al femminile sembra non essere passata, in tempo.

Credo di aver mantenuto anche con il passare degli anni quella sensazione, anche quando una maestra mi spiegò il significato di quel giorno, con tanto di consolidamento di invenzione di una tradizione sul fatto che la data fosse stata scelta per ricordare le operaie americane morte nel 1909 durante un incendio avvenuto nel corso di uno sciopero.

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Mantenni, dicevo, una sorta di diffidenza, forse meno giustificata di un tempo (ma, si sa, le sensazioni di bambina fanno fatica ad andar via), una sorta di tensione emotiva, quella tensione che provo ogni volta che percepisco lo scarto tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, tra quello che ci si aspetta e ciò che non è. Forse rabbia, mal di pancia, per quel che poteva essere e non è stato. E le ricorrenze sembrano ottime, con le loro imbellettate iniziative istituzionali, nel far finta di. Nel coprire lo scarto e quindi nel ricordarlo.

Ci sono, oggi, alcuni nomi e parole-chiave che sembrano definire una mappa del controllo normativo dei corpi e dei desideri disciplinati. Sembrano avere il ritmo cadenzato di una marcia. Di guerra. La mancata approvazione della risoluzione Estrela sui diritti sessuali e riproduttivi, la legge Gallardòn in Spagna, il graduale svuotamento della 194 che passa attraverso le elevate percentuali di obiezioni di coscienza tra ginecologi e personale sanitario, le azioni dei comitati pro-life e delle associazioni antiabortiste che ne richiedono l’abrogazione, il rifiuto dei farmacisti, illegale, è il caso di sottolinearlo, di vendere la pillola del giorno dopo. Tutto fa presagire il ritorno, drammatico, a (non)scegliere tra migrazione forzata, per chi economicamente potrà concedersela, e aborto clandestino per tutte le altre, presumibilmente disoccupate, precarie, migranti. Ma ancora, perché di guerra si tratta: i tagli al welfare che colpiscono i consultori e le loro funzioni così come pensate negli anni settanta, il poco celato luogo della colpevolizzazione costituito dai cimiteri dei feti. La forma, forse la più drammatica, del dominio maschile sul corpo delle donne, il femminicidio. La trans/lesbo/omofobia. Il rapporto Honeyball che attraverso la criminalizzazione dei clienti delle lavoratrici e dei lavoratori del sesso ne rinforza gli stereotipi, rimettendo le etichette di vittime. Mettendo il tutto in fila, questa guerra fa paura.

Ah, dimenticavo, o almeno speravo, il pinkwashing del governo Renzi e l’Italicum, che il caso vuole, ma il caso è quasi sempre significativo, prenderà l’8 marzo come pausa di riflessione, diciamo. Una pausa che, d’accordo oppure no sulla parità imposta dalla legge, sull’equa alternanza di uomini e donne nelle liste elettorali e sul 50% di donne capilista, evidenzia in ogni caso le frizioni del rapporto tormentatissimo tra genere e istituzioni. L’impianto discorsivo fa venire subito alla mente le parole, che appaiono sempre profetiche, di Carla Lonzi: “L’uguaglianza è quanto si offre ai colonizzati sul piano delle leggi e dei diritti. E quanto si impone loro sul piano della cultura. È il principio in base al quale l’egemone continua a condizionare il non egemone. Il mondo dell’uguaglianza è il mondo della sopraffazione legalizzata, dell’unidimensionale”.

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“Tenetevi le mimose”, quindi. Il principio di autodeterminazione da difendere, l’imperativo “io decido” ancora da far ascoltare. Come quando da piccola andavo in pizzeria con le amichette e mia madre continuava a pulire, come quando accettavo le mimose dal ragazzo che il giorno prima mi aveva mostrato il suo modello a cui adeguare il processo, come avrebbe scritto qualche anno prima Lonzi.

Ancora Lonzi, a cui ritorno sempre nei momenti di smarrimento, anche per un’altra questione che mi sta a cuore. Il complesso rapporto tra donne e lavoro storicamente traspare nei mutamenti, nei discorsi e rivendicazioni della giornata internazionale delle donne, nelle sue pratiche e forme espressive, a partire proprio dalla cruciale celebrazione della giornata delle donne da parte delle operaie di Pietrogrado avvenuta il 23 febbraio 1917, nel calendario gregoriano l’8 marzo, appunto.“La parità di retribuzione è un nostro diritto, ma la nostra oppressione è un’altra cosa”, dice Lonzi.

Se il nesso cittadinanza/lavoro, al tempo del non lavoro, si mostra barcollante, direi mortifero e mortificante, prende la forma di un taglio, bisognerà ripartire dalla cittadinanza incompiuta delle donne per aprire spazi di elaborazione su ciò che è necessario per vivere, per “pensare una giustizia che a partire dalla posizione di una donna sia valida per tutti”, come scrivono, in un recente volume collettaneo sul tema del lavoro, Sandra Burchi e Teresa Di Martino (Come un paesaggio. Pensieri e pratiche tra lavoro e non lavoro, Iacobellieditore, 2013). Bisognerà “muoversi su un altro piano”, ripartendo dal corpo, dai suoi desideri, dalle relazioni, dalla riappropriazione di spazi di libertà.

Sembra compito dei soggetti imprevisti assumere l’ambiguità, metterla a nudo. Col tempo, scavando anche negli archivi delle donne, ho rintracciato una genealogia della mia sensazione di bambina e del permanere di quel sentimento. La distanza dal senso comune dell’8 marzo la scoprivo in un volantino del 1983 del Coordinamento per l’autodeterminazione delle donna di Catania dal titolo “Le mimose? No grazie, preferiamo il futuro”, nell’ “insana puzza emancipatoria della mimosa” come la definirono le femministe a Padova nel 1976, nel titolo di un breve articolo comparso su “Quotidiano donna” l’8 marzo del 1982, nel clima di repressione politica di quegli anni,“Non è tempo di mimose”. Lo scarto tra stanco e vuoto rituale e l’agire politico di soggetti imprevisti e la rabbia, che muove.

Ho scritto questi appunti ascoltando una canzone. È la loro colonna sonora. Questo pomeriggio, prima di scendere in piazza la riascolto. È un classico, di quelli che sembrano fuori moda ma che quando li risenti pensi che ha ancora senso per te ascoltarli.

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