Quei bravi ragazzi

Israele: le contraddizioni e le speranze. Si bombarda Gaza, ma si sostengono i bambini siriani

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/08/fia.jpg[/author_image] [author_info]di Fiammetta Martegani, da Tel Aviv. Nata a Milano nel 1981 a dal 2009 vive a Tel Aviv. Dal 2012, dopo aver conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Antropologia della Contemporaneità, scrivendo una tesi sulla rappresentazione del soldato nell’arte e nel cinema israeliano, svolge, sempre a Tel Aviv, un Postdottorato in Cinema e Lettaratura Comparata. Nel corso di questi anni è stata corrispondente da Israele per il quotidiano online Peacereporter, il mensile E e il programma radiofonico Caterpillar di Radio2. [/author_info] [/author]

18 marzo 2014 – Dopo oltre cinque anni in Israele, ancora mi stupisco di una delle tante contraddizioni che contraddistingue ma al tempo stesso rende unico questo Paese, sia nel bene che nel male.

Questa volta mi riferisco al soccorso medico, da parte di Israele, nei confronti delle vittime della guerra civile in Siria, i cui rapporti diplomatici con Israele sono praticamente inesistenti dai tempi della prima guerra di indipendenza, nel 1948.

Tutto è cominciato circa un anno fa, nel febbraio del 2013, quando alcuni siriani gravemente feriti a causa della guerra che dal 2012 ha causato oltre 150.000 morti hanno cominciato a presentarsi al confine di Israele in cerca di soccorso medico.

O

Da allora, circa 700 siriani hanno ricevuto soccorso attraverso il supporto medico dei quattro ospedali più vicini al confine siriano, ovvero: circa 250 pazienti presso l’ospedale di Tzfat Rebecca Sieff, circa 200 presso l’ospedale di Nahariya della Galilea Occidentale, una quarantina all’ospedale Poriya di Tiberiade e una ventina presso l’ospedale Ramban di Haifa. Per un totale di circa 500 siriani. Gli altri 200, in attesa di essere trasferiti in uno di questi ospedali, sono in cura presso l’ospedale di campo dell’Esercito di Difesa israeliano, situato al confine con la Siria.

È qui che si presentano i civili, spesso bambini che con la guerra non dovrebbero avere nulla a che fare e che a causa della disastrosa situazione sanitaria che grava oggi in Siria affidano il proprio destino nelle mani dei medici israeliani, spesso arrivando muniti del referto clinico dei “colleghi” siriani.

Come mi spiega il Professor Colin Shapira, vicedirettore dell’ospedale Rebecca Sieff di Tzfat, i medici siriani sono perfettamente consapevoli di quanto la tecnologia israeliana sia all’avanguardia, soprattutto per quanto riguarda il campo delle protesi, a cui purtroppo sono costrette a ricorrere la maggioranza delle vittime dei bombardamenti del governo di Assad.

«Non solo il nostro servizio sanitario è uno dei migliori nel mondo – aggiunge il Professor Shapira – ma soprattutto cerchiamo di fare davvero il possibile per salvare gli arti che, invece, in un ospedale siriano, verrebbero probabilmente amputati senza nessun’altra alternativa. Anche per quanto riguarda la riabilitazione, che spesso può implicare fino a cinque interventi chirurgici, ci occupiamo di loro fino a quando non sono in grado di poter farcela da soli».

«E a quel punto cosa succede?»

«Che se ne tornano a casa, anche se talvolta sono costretti a dover ritornare qua»

La cosa che più mi colpisce di tutta questa storia è il modo in cui i pazienti siriani raggiungono gli ospedali israeliani, ovvero tramite il soccorso dell’Esercito israeliano.

«A dire il vero – mi spiega meglio il Professor Shapira – è lo stesso Ministro della Difesa, assieme a quello del Tesoro e quello della Sanità, a coprire la maggior parte delle spese mediche, che nel nostro ospedale hanno raggiunto oltre 10 milioni di NIS, l’equivalente di circa 2 milioni di Euro».

«E perché lo fanno?»

A questa domanda il Professor Shapira non risponde esplicitamente, ma mi lascia intendere che è negli interessi del governo israeliano mostrare al proprio “nemico”, e in parte anche alla comunità internazionale, il volto umano di Israele.

E se sul volto umano del governo ci sarebbe forse qualcosa da ridire, qui all’ospedale di Tzfat di volti umani ce ne sono parecchi, sia all’interno del personale medico che dei pazienti.

Spesso il rapporto tra il personale e i pazienti siriani è gestito da un assistente sociale arabo israeliano che si occupa anche della raccolta fondi e di beni di prima necessità grazie ai quali i pazienti siriani riescono a condurre una vita semi-normale nel corso dei giorni, talvolta mesi, di degenza in ospedale.

«F.I. si occupa soprattutto di intrattenere i bambini – aggiunge Shapira – che sono purtroppo il problema piú grande che abbiamo, anche perché nella maggior parte dei casi arrivano qui senza genitori e l’unico contatto umano che hanno è quello col personale medico».

«E come fanno con l’ebraico?»

Ma mi dimentico che in ospedale gran parte del personale medico è arabo-israeliano.

«Qui c’è di tutto – aggiunge Hanna Bikel, portavoce dell’ospedale – arabi, ebrei, drusi, circassi. Siamo tutti una grande famiglia!»

Le domando allora se secondo lei l’aiuto israeliano nei confronti dei pazienti siriani possa avere degli effetti positivi, in termini di lungo periodo, nei confronti del processo di pace in Medio Oriente.

Cosa succederà in questa zona calda, soprattutto alla luce degli ultimi trascorsi politici, nessuno puó saperlo, ma sicuramente questo tipo di iniziativa umanitaria ha anche dei risvolti “umani” nell’immediato, mi spiega Hanna mentre mi mostra la foto di S.A., una ragazzina di 15 anni che ha perso un piede a causa dei bombardamenti, ma di cui sono riusciti a salvare l’altro arto, e che ancora oggi si sente con F.I. via sms.

Chiedo ad Hanna cosa succede ai pazienti dopo essere tornati in Siria e mi spiega che spesso cercano rifugio politico in Giordania.

Forse un giorno potrebbero ottenere persino il rifugio politico in Israele, che negli ultimi anni ha offerto asilo politico a diversi rifugiati nordafricani, in fuga soprattutto dall’Eritrea e dal Sudan. Tuttavia, anche per loro, la vita in Israele non è cosi semplice, e lo diverrá sempre meno, almeno fino alla fine dell’attuale governo guidato da Bibi Netanyahu.

Eppure qui all’ospedale di Tzfat sembra veramente di vivere in un altro mondo, dove tutto è possibile. E forse un altro mondo è davvero possibile. Basta semplicemente volerlo.



Lascia un commento