Peso per lo Stato

Belgio: un’artista italiana esplusa sostiene la lotta dei richiedenti asilo

di Anna Maria Volpe, da Bruxelles. 

20 marzo 2014 – Silvia Guerra è una musicista italiana, vive in Belgio con il figlio da ormai 3 anni, ed è una dei cittadini europei che hanno ricevuto un avviso di espulsione perché considerata un “peso irragionevole” per le casse dello Stato.

Eppure, Silvia non è una clandestina incapace di mantenersi, tutt’altro.

Prima di ricevere l’avviso, Silvia lavorava infatti con un piccolo contratto di inserimento professionale, in parte finanziato dallo stato belga.

Poi, la spiacevole notizia le è piombata addosso. Quando si è espulsi non si può più lavorare, la carta di identità viene ritirata, non si ha più diritto ad una serie di servizi amministrativi e giuridici legati al lavoro. Si è insomma dei fantasmi.

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Il Belgio si basa sulla direttiva europea che regola la libera circolazione dei lavoratori europei, secondo cui “i cittadini non devono diventare un irragionevole peso per il sistema sociale del paese che li ospita”. Eppure, il contratto incriminato trova le sue basi giuridiche nell’ex art. 60 della legge del CPAS del 1976, in base al quale Silvia è stata assunta per 18 mesi a partire dal dicembre 2012. Lo Stato belga lo considera un aiuto sociale perché, attraverso il CPAS (Centro Pubblico di Azione Sociale, che firma il contratto, ndr) finanzia parte dello stipendio allo scopo di agevolare il reinserimento lavorativo del soggetto.

In tre anni il numero di europei espulsi dal Belgio è esploso, si è passati da 502 persone nel 2010, a 2712 persone nel 2013. A decidere sono i funzionari dell’ufficio degli stranieri.

Eppure Silvia, non si è persa d’animo. Anzi, da quando questa questione ha travolto la sua vita, la musicista si è buttata a capofitto sul lavoro e ha deciso di far parlare la sua arte, facendo coincidere la sua lotta, anche se solo per un giorno, in segno di solidarietà, con quella dei circa cento richiedenti asilo afgani che, da novembre, hanno trovato rifugio sotto le navate della Chiesa St-Jean Baptiste du Béguinage nel cuore di Bruxelles.

Silvia ha così messo in scena il suo spettacolo “Ritalia mon amour – chansons d’italie(ennes)” domenica 9 marzo all’interno della Chiesa.

«Vista la mia espulsione e la rilevanza mediatica della stessa, mi sono sentita obbligata a fare una data a Bruxelles. Ho avuto voglia di esprimermi pubblicamente attraverso il mio lavoro, di parlare con un linguaggio o con un ritmo in cui mi sento a mio agio – racconta Sivia – Ho pensato agli afgani, a creare un evento di solidarietà, perché loro accogliendomi mi hanno dato possibilità di essere coerente con la volontà politica del mio gesto. Facendo lo spettacolo da loro potevo sensibilizzare gente nuova alla loro causa, e aiutarli economicamente, ma soprattutto regalargli un momento di pausa dalla lotta, dalla resistenza, dalla precarietà».

“Cabaret ritalia” parla, attraverso la musica, di come gli immigrati percepiscono il Paese che hanno lasciato. «Installandomi in Francia, dopo aver itinerato tanti anni, e perdipiù incinta, mi sono resa conto di aver emigrato. Penso che in viaggio non si ha la sensazione di aver cambiato Paese. Incinta ci si rende invece conto che il proprio figlio nascerà in un paese diverso da quello d’origine e che avrà quindi una storia e una cultura diversa».

«A questo punto – prosegue Silvia – ispirandomi  al dispregiativo “rital”, con cui si indicano gli italiani, e con la solita mania di rivoluzionare tutto, ho rifiutato di subire uno status legato alla mia condizione di neoimmigrata. E ho così concepito questo spettacolo assieme a un’amica/collega con una storia molto simile alla mia».

Silvia ci tiene a sottolineare che la questione dell’identità dell’immigrato l’ha interessata prima dell’espulsione. Per questo motivo ha scelto di fare questo spettacolo dagli afgani.

«Ora abbiamo voglia di immaginare una nuova creazione. Vogliamo parlare dei Paesi che ci accolgono in seguito alla nostra immigrazione. Tutto questo avrà sicuramente un legame con la storia dell’espulsione, ma non sarà incentrato solo su questo».

Silvia ha una chiara idea di militanza attraverso l’arte: «La mia esperienza nei circhi e nelle strutture itineranti mi ha insegnato che, se crei un certo tipo di situazione, il pubblico diventa più ricettivo. In una maniera meno retorica, attraverso un certo tipo di poesia, si può comunque mandare un messaggio chiaro e precisamente politico che il pubblico accetta, forse, più volentieri che quando viene dal lontano di un podio».

La storia di Silvia ha un significato prettamente politico poiché mette in evidenza come la cittadinanza sociale nell’Unione Europea sia un concetto ancora astratto e perlopiù vuoto. Il riconoscimento del diritto al welfare, a livello europeo, richiede, specialmente in un momento di crisi, una presa di coscienza collettiva. A meno che non si voglia ritornare alla vecchia logica degli Stati Nazione e ridurre le Istituzioni comunitarie e l’ideale di Europa ad una sbiadite immagine di ciò che avrebbe dovuto essere, ma che invece non è. Tuttavia, vi è anche un messaggio positivo, una forma di protesta e ribellione che attraverso l’arte, il gioco e la musica può sensibilizzare e abbracciare altre cause, come quella degli afgani, spesso dimenticate o diventate carne da macello del sistema mediatico e politico.

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