Israele: la prigione cambia i bambini

Shira Ayal, attivista dell’ong israeliana Hotline for Refugees and Migrants, ha visitato più volte i richiedenti asilo di origine africana in prigione. Riportiamo le sue impressioni sugli effetti del carcere sui minori raccolte nella rubrica “Voices from Prison”

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Di Shira Ayal, Hotline for Refugees and Migrants –
traduzione a cura di Stefano Nanni, osservatorioiraq.it

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26 marzo 2014 – Soltanto nell’ultimo anno più di 200 i figli in minore età dei richiedenti asilo detenuti in Israele. Il loro arresto prima della deportazione o a seguito dell’ingresso irregolare è l’attività ordinaria e non l’ultima istanza che le autorità impiegano, come previsto dalla Convezione sui diritti del Fanciullo, di cui Israele è firmataria. Recentemente, una coalizione di organizzazioni per i diritti umani, inclusa Hotline for Refugees and Migrants, ha presentato un piano dettagliato di alternative alla detenzione minorile. Si tratta di soluzioni in cui i bambini vengono coinvolti e non subiscono un trattamento violento con l’obiettivo è quello di fornire ai minori e alle loro famiglie un’atmosfera in sintonia con i loro bisogni.

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Durante la mia ultima visita alla prigione di Giv’On, a Ramla, ho incontrato 4 madri e 5 bambini. T., una richiedente asilo proveniente dall’Etiopia, è in carcere da due anni insieme a suo figlio di 3 anni. G., donna ghanese prigioniera da 7 mesi insieme a sua figlia, che di anni ne ha 2. Anche R. viene dal Ghana, ed è in prigione 18 mesi. Di figli ne ha 2: uno di 6 anni e l’altro di 2. Così come il figlio di P, richiedente asilo nigeriano, in carcere da poco più di un mese.

È da un anno e mezzo che vengo in visita alla prigione di Giv’on, per una volta a settimana. Questo è il giorno della settimana in cui oltrepasso i confini del mondo a me familiare, dove la mia vita ha luogo quotidianamente, e mi inoltro in un altro dove tutto è totalmente diverso: la sua routine, le sue leggi, la gente che vi abita. In questo mondo vivono persone senza scelta, essendo la loro vita gestita da burocrati e guardie carcerarie.

Il loro diritto a svilupparsi in quanto essere umani ed aspirare alla realizzazione dei loro sogni e desideri si è estinto dal momento in cui sono stati arrestati, e la speranza che si riapproprieranno di nuovo dei loro diritti diminuisce ogni giorno di più. Questo è un piccolo mondo, circondando da barriere, muri di cemento e porte di acciaio. È davvero dura immaginare che in quei luoghi degli esseri umani vi vivono giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno.

Ed è ancor più difficile pensare che dei bambini vi stiano crescendo, e che tutto ciò che loro conoscono accade all’interno dei confini di questo mondo. La prima donna che ho incontrato è stata P., dalla Nigeria.
È stata condotta all’incontro con me da sola, ma pochi minuti dopo è arrivato anche suo figlio di 2 anni, accompagnato da una guardia, secondo la quale il bambino stava piangendo e urlando troppo. Le lacrime si sono esaurite quando sua madre lo ha preso in braccio. P. ha presentato richiesta di asilo in Israele, ma stando a quanto dice lei “io sono stata intervistata in seguito alla mia domanda, ma non ho ricevuto alcun visto durante il periodo di attesa e quindi sono stata arrestata proprio per mancanza di documenti”. P. è preoccupata per la crescita di suo figlio in prigione: “i bambini hanno bisogno di andare all’asilo o a scuola. Prima di essere arrestato era all’asilo. Gli mancano i suoi amici e la vita che fuori dalla prigione. Vorrei che le cose cambino. Vorrei essere libera in modo da poter continuare a prendermi cura di mio figlio”.

Dopo ho incontrato T., etiope. Mi ha raccontato che è arrivata in Israele nel 2009, dopo essere fuggita perché faceva di un gruppo all’opposizione del regime, che reprime duramente questo tipo di attivismo. T. è stata ricevuta dagli impiegati del Ministero degli Interni, i quali hanno respinto la sua richiesta di asilo, così come è capitato al 99,85% dei casi esaminati da loro. Il tasso di riconoscimento dei rifugiati di Israele è dello 0,15%.

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T. mi ha descritto la reazione dei funzionari del Ministero di fronte alla sua richiesta: “Mi hanno detto che sono una bugiarda perché non c’è alcuna guerra in Etiopia. Lo so che ora c’è una situazione di pace, ma per me è molto pericoloso tornare perché ero attiva in un’organizzazione anti-governativa. Molti dei miei colleghi sono stati uccisi, per questo io ho molta paura”.
Paura di finire in prigione, di essere torturata o uccisa, a causa della quale T. ha rifiutato di tornare nel suo paese, anche se questo significa rimanere in carcere in Israele a tempo indefinito.

“Sono qui da quasi due anni”, mi ha detto, “e mio figlio è qui da quando aveva un anno. È nato in Israele e non ha mai avuto la possibilità di andare all’asilo. È cresciuto in prigione. Qui, dove non ci sono né scuole né asili.” T. mi ha descritto come la detenzione stia nuocendo a suo figlio: “Piange di continuo. Di notte lui vorrebbe uscire dalla cella, ma le porte sono chiuse. E a volte rimangono così anche quando dovrebbero rimanere aperte, soprattutto per quelle donne che vengono considerate “causa di problemi”.

Poi ho è stata la volta di G., dal Ghana, che in Israele vive da 5 anni. Ma da 8 mesi è in prigione. Spiega che il giudice del tribunale amministrativo di detenzione le ha detto chiaramente: “tornatene nel tuo paese”. Ma lei ha rifiutato: “Se io potessi tornare indietro, sceglierei di stare in prigione? Perché dovrei stare di nuovo in prigione con mia figlia se posso tornare a casa?”. G. mi ha raccontato la sua routine quotidiana in prigione: “Lavoro qui confezionando il caffè, ricevendo 5 NIS (nuovo shekel israeliano) – circa 1,4 dollari – al giorno. Lavoro dalle 8:30 di mattina alle 5 di sera. I bambini di solito stanno con noi mentre lavoriamo.” La vita in prigione, descrive G, è troppo difficile per loro: “sono sempre annoiati. Piangono, urlano. La prigione cambia i bambini. Li rende ansiosi, agitati e sempre stressati.”
Mi ha confidato che a sua figlia, in carcere con lei da quando è arrivata, manca la sua tata. “Una volta mia figlia ha preso il suo zainetto e mi ha detto ‘dai, andiamo da lei’, e poi è scoppiata a piangere.”

La bambina non riesce ad abituarsi al carcere: la madre racconta che a volte la piccola parla ad un suo amico dell’asilo, come se lui fosse qui.” Una volta si è avvicinata alle sbarre della cella chiusa e ha iniziato ad urlare: “Dio, apri la porta” Voglio una bamba (uno snack popolare israeliano non disponibile in prigione)!”

Dal Ghana viene anche R., che ha intrapreso il viaggio verso Israele 8 anni fa, ma da 18 mesi si trova in prigione con i suoi bambini. R. ha ripercorso con me i momenti del loro arresto: “siamo stati arrestati il 18 luglio 2012. Hanno fatto irruzione in casa alle 5 del mattino e hanno portato via i miei figli che piangevano in modo isterico. Il più piccolo aveva solo 6 mesi. Ci hanno portato direttamente a Sharonim – prigione a sud di Israele, riservata esclusivamente ai migranti – e dopo due mesi ci hanno trasferito qui a Giv’on.
All’epoca dell’arresto il figlio maggiore di R. andava all’asilo. In prigione, oltre a non esserci strutture educative, suo figlio non ha neanche amici, perché è il più grande tra i bambini detenuti. La madre dice che lui “vuole sempre andare a scuola, vuole imparare”.
Il carcere sta ostacolando la sua crescita: “Non ci sono giochi per la sua età, né libri né qualunque altra cosa che possa stimolarlo a imparare cose nuove. Non ha niente da fare 24 ore su 24, non c’è un’ora al giorno in cui è impiegato a fare qualcosa.

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