La crisi di Libération: ribellarsi è giusto

Di fatto oggi il giornale è autogestito dalla redazione, con alcune pagine dedicate esclusivamente alle notizie dello scontro in atto, e risparmiamo ai lettori la congerie della accuse, alcune assai pesanti, che rimbalzano da una parte e dall’altra

di Bruno Giorgini

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26 marzo 2014 – Tra il 1972 e il 1974 tre persone discutono di contestazione e potere, di nuovi valori e militanza, di repressione e rivolta. Sono Jean-Paul Sartre filosofo, che ha diretto La Cause du Peuple, quando il giornale maoista era stato dichiarato illegale dal governo gaullista; Pierre Victor, nome di battaglia di Benny Lévy, capo indiscusso della Gauche Prolétarienne (GP), formazione maoista francese uscita direttamente dal maggio ‘68, stalinista e libertaria insieme il diavolo e l’acqua santa;  e infine Philppe Gavi uno dei leader di Vive la Révolution (VLR), grosso modo qualcosa che rassomigliava alla nostra Lotta Continua. Ne esce On a raison de se révolter (Ribellarsi è giusto – Einaudi, 1975), un libro assai bello e molto utile a chi volesse oggi capire cosa, e come, accadde nei cinque anni, dal ’67 al ’72, quando parve che Parigi fosse tornata a essere – dopo il 1789 di liberté, egalité, fraternité e il 1870 della Comune – caput mundi della rivoluzione.

Ne esce anche un quotidiano: se la rivoluzione è finita comincia il lungo tempo e cammino della liberazione. E Liberation si chiama il giornale che vuole costituire una ragione critica della rivolta senza rinnegarla, e nel contempo una traccia di quel famosissimo slogan scritto su un muro: l’immaginazione al potere. Con loro, Sartre Gavi Victor, c’è tra i padri fondatori anche Serge July dirigente della GP, che di Libé sarà il direttore dal 1974 al 2006. Il primo numero, di quattro pagine, viene stampato  il 5 febbraio 1973 e venduto, piuttosto passato, di mano in mano, poi dal 22 maggio compare in edicola al prezzo di 0,80 franchi. Il giornale, nei mesi inizali del tutto autogestito e senza direttore, ha da subito un grande prestigio e molte difficoltà finanziarie. Il capitale è interamente dei giornalisti  che si danno uno stipendio uguale per tutti senza differenze attinenti la funzione, dai redattori ai/alle segretari/e, in lire italiane circa7-800000 mila al mese, parecchio al di sotto della media nel settore. Inoltre c’è una specie di diritto a intervenire nel corpo di ogni articolo, ovvero di tanto in tanto potevi leggere in una colonna il commento tra parentesi di una segretaria o di un fattorino,  e funziona l’interruzione anarchica e/o iconoclasta, i lettori a giudicare dalle lettere ne vanno matti.

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Libération vende circa 45.000 copie al giorno, soprattutto a Parigi, non poche per il tipo di giornale, e non accetta pubblicità. Fin quando i soldi si esauriscono e nel febbraio dell’81 Libé sospende le pubblicazioni. Avviene così la prima metamorfosi del giornale: viene applicata la dura legge capitalista dei tagli, per cui sedici (16) redattori vengono licenziati, poi, quando a maggio il giornale torna in edicola, la pubblicità compare nelle pagine del quotidiano gauchiste, e July provando a trasformare il cedimento rispetto all’antica purezza in qualità Libération: «No, Libération non cambia, è la pubblicità ad essere cambiata: è un’arte. Non sappiamo esattamente dove inizi la cultura e dove finisca la pubblicità. Senza di lei Libération sarebbe un giornale incompleto».  La metamorfosi riesce, il giornale si trasforma senza modificare il suo DNA (la metamorfosi è appunto quel cambiamento per cui il bruco grigiastro che si muove strisciando, diventa la colorata farfalla che vola, lasciando intatto il patrimonio genetico primigenio), mentre la sinistra francese vive una delle sue più felici stagioni. Contro ogni pronostico Francois Mitterand candidato della gauche, PS e PCF più  quasi tutte le organizzazioni rivoluzionarie, unita nel programma comune, vince le presidenziali contro la destra gaullista, e Place de la Bastille riempita da un flusso folla incontabile che dura fino al mattino straripa di gioia in una incredibile notte che ancora oggi si racconta. Libé, il giornale che senza riserve ha fin dall’inizio appoggiato Mitterand, è in mano a moltissimi e da lì cominciano i giorni belli. Il quotidiano certo non naviga nell’oro, ma le vendite balzano sopra le centomila (100.000) copie in crescita, la pubblicità corre, il numero dei giornalisti aumenta. In quegli anni, se per un verso Libération è presidenziale, per l’altro sta sulla cresta dell’onda in tutte le battaglie, per esempio contro il Fronte Nazionale propiziando la nascita di SOS Racisme, oppure appoggiando le grandi lotte studentesche del 1986 scoppiate contro il governo di destra, quando il Presidente Mitterand è costretto alla coabitazione con Chirac premier.

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Non bisogna pensare a un giornale tutto politica e militanza, una delle invenzioni più fortunate è la rubrica di piccoli annunci “erotici”, les petits annonces chéris, molto espliciti, che all’inizio fa scandalo “ma come, un giornale di sinistra deve essere serio e non parlare di culo ecc…”,  per essere dopo ripresa e imitata da altri, tra cui anche Le Nouvel Observateur, tradizionale autorevole e paludato settimanale della sinistra “per bene”.  Il giornale non solo tiene ma si rafforza, attestandosi su una media di oltre duecentomila (200.000) copie vendute anche quando le cose si fanno difficili per la sinistra e le grandi speranze si affievoliscono. Più precisamente il progetto europeo di Mitterand, che puntava a costruire un’Europa non solo dei banchieri ma sociale, in stretta sinergia con l’URSS riformata di Gorbaciov, si scriveva allora di un’Europa socialista dall’Atlantico agli Urali, viene sconfitto, cade il muro, l’URSS non esiste più, e di Europa sociale gli altri partner non vogliono sentir parlare. Finchè arriva, dopo la morte di Mitterand, la sconfitta più bruciante che pesa ancor oggi. A Mitterand vecchio e malato succede Chirac, gaullista della prima ora ma sembra una vittoria di Pirro perchè la sinistra vince poi le elezioni politiche, e il socialista Jospin diventa Primo Ministro. Quando nel 2002 viene il tempo di nuove presidenziali la vittoria di Jospin pare certa. Ma al primo turno il candidato socialista è battuto da quello del FN, Jean Marie Le Pen, fascista che arrivato secondo andrà al ballottaggio con Chirac. E’ un trauma violento per milioni di persone di sinistra, e ancor oggi ci si chiede come sia potuto accadere, se non che si presentarono al primo turno, comunisti, verdi, nazionalisti di sinistra, extraparlamentari perchè Jospin con somma arroganza e stupidità li aveva trattati a pesci in faccia rifiutando qualunque accordo, il PS  in splendido isolamento avrebbe portato Jospin al secondo turno in carrozza, e lì tutti questi rompicoglioni della sinistra critica e riottosa avrebbero dovuto votare per lui, perchè dall’altra parte c’è la destra, Chirac, quello che andava per conto di De Gaulle, agli incontri coi sindacati durante il maggio ’68 con la pistola in tasca, vantandosene. Il popolo della sinistra è sconvolto, disastrato, le segreterie dei partiti non sanno che pesci pigliare, Jospin da un giorno all’altro passa da leader a sputacchiera dimettendosi, nessuno sembra sapere che dire e che fare. Qui Libération getta un ponte sull’abisso uscendo il 2 aprile in prima pagina con la foto di Jean-Marie Le Pen e un grande semplice NO, che implica l’ovvia indicazione di votare Chirac, il male minore, vittorioso con l’82% dei suffragi.

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La responsabilità che nessun partito e organizzazione della sinistra vuol prendersi è assunta dal giornale, che vende settecentomila (700000) copie. È la vetta da cui comincia a decrescere inesorabilmente: se il fascismo non è passato, la sinistra sta comunque nello sprofondo, e Libé, per quanto si dibatta, è trascinato con lei nella frana. Rapidamente tanto che nel 2006 arriva una nuova crisi e questa volta l’unica soluzione che si prospetta è l’intervento di un investitore privato pesante, Édouard de Rothschild che acquista il 40 per cento delle quote esigendo un piano di ristrutturazione che comporta il licenziamento di 76 dipendenti. Molte firme storiche abbandonano la testata (tra questi Florence Aubenas, la giornalista tenuta in ostaggio per diversi mesi in Iraq nel 2005, il critico cinematografico Antoine de Baecque, lo scrittore Jean Hatzfeld) e il direttore Serge July, su richiesta del nuovo azionista, si dimette. Ma Libération senza July e gli altri sarà ancora Libération? Oppure è in atto una mutazione genetica destinata a modificare il DNA del giornale, se non un virus destinato a annichilirlo?

Intanto si sviluppa la crisi della carta stampata che picchia duro. Libé cerca soluzioni una via l’altra ma è come pestare l’acqua in un mortaio, per di più dopo il mostro sacro July – uomo spesso autoritario, a volte tronfio epperò di grande generosità e intelligenza, nonchè coraggio, un funambolo equilibrista sempre sospeso sulle cascate del Niagara e portatore dell’intera storia del giornale –  ogni direttore appare inadeguato. Anche quando arriva la vittoria di Hollande, non è tale da suscitare entusiasmo, il giornale ha potuto essere presidenziale con Mitterand, ma con Hollande l’impresa è disperata.

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E alla fine del 2013, inizi del 2014, arriva la crisi attuale che potrebbe mettere fine alla storia cominciata con “ribellarsi è giusto”. I conti sono in rosso, fino alla soglia del fallimento. Entro marzo – aprile di quest’anno ci vogliono tra il milione e il milione e mezzo di euro per evitare di portare i libri in tribunale, ma per risanare la situazione debitoria c’è chi parla di 12 milioni, mentre le vendite sono scese ben sotto le centomila (100000) copie  – alcuni dicono addirittura poco più di 30-40000. Ovviamente si sono ridotte le spese, sia sul lavoro vivo che con una serie di misure quali per esempio la chiusura anticipata del giornale alla sera, ma è una goccia nel mare. Né i tentativi di far fronte alla crisi attraverso l’edizione online sono valsi granché. Per dirla da lettore, si tratta di un giornale elettronico copia conforme di quello stampato, ovvero senza alcuna capacità di estendere il bacino d’utenza. Insomma Libération non è riuscito a seguire le orme del Guardian, che vendendo duecentomila (200000) copie cartacee, quindi non tantissime, ha sviluppato un giornale online che oggi ha 40,9 milioni di utenti unici in media al mese. Un giornale che si vanta di dare in tempo reale le notizie che nessun altro fornisce, notizie che trascorrono dall’ecologia e il cambiamento climatico alle denunce che disvelano i lati oscuri del potere, quello degli stati quanto quello dei mercanti globali – di denaro, esseri umani, armi, petrolio, droghe – fino all’informazione di prossimità, lo sgarbo fatto ai cittadini dal sindaco di una semisconosciuta cittadina inglese o scozzese, oggi la Scozia è particolarmente calda per il futuro referendum sull’indipendenza. Per di più in sinergia col giornale funziona il Guardian Coffee, “nato in collaborazione con la catena di caffetterie Nude Espresso per realizzare un’idea di giornalismo coinvolgendo direttamente le persone”  sulla linea del citizens journalism, con contorno di nuove tecnologie ICT (Information Communication Technologies) attraverso le quali gli individui possono dialogare da tutto il mondo con la redazione.

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Nei tempi belli Libé intanto aveva traslocato in un immobile di 4500 metri quadri prima adibito a grande parcheggio su più piani che s’attorcigliano a lumaca a Rue Béranger in pieno centro. Il proprietario è Bruno Ledoux, che insieme a Rostchild detiene la holding Refondation che ha il 52 per cento del capitale; se si aggiunge la quota di Carlo Caracciolo, attorno al 20 per cento, si capisce come ai giornalisti sia rimasto ben poco. Tanto che Bruno Ledoux pensa, per rispondere alla crisi, di traslocarlo il giornale con i suoi attuali duecentosessanta (260) circa lavoratori, da qualche parte, non si sa dove, facendo della sede attuale “uno spazio culturale di conferenze con un palcoscenico televisivo, uno studio radiofonico, una newsroom digitale, un ristorante, un bar, un incubatore di start-up “ insomma “il Flore del XXI secolo”. Il Flore mitico caffè dove Sartre scriveva  “L’Etre et le Néant” fondando l’esistenzialismo, Juliette Grecò col nero maglione attillato scuotendo i lunghi capelli componeva canzoni mentre Boris Vian spiegava che avere ventanni può essere una maledizione; il Flore dove nacque il “Secondo Sesso” di Simone de Beauvoir, il castoro e , quando era fuori di prigione, passava Jean Genet, criminale per la società, scrittore geniale, omosessuale sfrenato, rivoluzionario anarchico, con i molti altri che resero Parigi a quel tempo la capitale mondiale della cultura critica e libertaria. Ma non fu il Flore a fare Sartre, bensì Sartre a fare il Flore, intendo che oggi quando la figura del “ grande intellettuale” parigino si è estinta, una riedizione del Flore rischia forte di confermare la famosa frase di Marx laddove afferma, più o meno, che la storia, quando si ripete, rischia di cadere nella farsa.

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Comunque la proposta di Bruno Ledoux provoca una immediata reazione dei lavoratori del giornale che di fatto esautorano il direttore editoriale, sfiduciato circa dal 90 per cento dei giornalisti- e che sarà obbligato a dimettersi nel giro di pochi giorni – pubblicando in prima pagina a caratteri cubitali “Nous sommes un journal”. Ma sempre Bruno Ledoux – che presiede il consiglio di sorveglianza del giornale – risponde a stretto giro di posta: “Ci saranno meno giornalisti di ora…è finito il tempo dei mecenati. Una intrapresa editoriale deve considerarsi una intrapresa normale, altrimenti è condannata..tutto quello che è nuovo  a Libé, fa un po’ paura.. se qualcuno è contro (al suo progetto ndr) non è obbligato a restare. Il giornale non appartiene ai giornalist. Non siamo in Unione Sovietica (sic).. Bisogna cambiare le culture.. questa cultura d’opposizione è per me incomprensibile”. Di fatto oggi il giornale è autogestito dalla redazione, con alcune pagine dedicate sclusivamente alle notizie dello scontro in atto, e risparmiamo ai lettori la congerie della accuse, alcune assai pesanti, che rimbalzano da una parte e dall’altra. Una però va presa in considerazione, il sospetto che in realtà Bruno Ledoux  voglia liberare i locali dal giornale per pura speculazione edilizia, essendo il valore di mercato dell’immobile, nonostante la crisi, assai alto.

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Insomma il Flore del XXI secolo sarebbe fumo negli occhi per sfrattare Libé, e al suo posto costruire molti appartamenti o un centro commerciale o cose consimili. Lo segnaliamo perchè si sovrappone, inquinandola, a una discussione anche molto aspra, però seria, su cosa oggi siano la comunicazione e informazione nella fattispecie per un giornale di sinistra, quale ruolo e spazio abbiano, come debbano operare per non restare strangolate da un mercato che  cambia e nel contempo pare inesorabilmente restringersi. Per concludere, allo stato attuale non è chiaro quali saranno le soluzioni, se Liberation si avvia a un’altra metamorfosi, se una nuova farfalla si sta preparando a volare conservando il DNA primigenio, oppure se si avrà una mutazione genetica, quando il DNA si modifica e nasce una nuova specie, e quale- come – sarà questa nuova specie.

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Sicuramente dovrà affrontare un limite, quello di essere un giornale essenzialmente parigino, non tanto perchè il nocciolo duro dei suoi lettori è parigino, ma soprattutto perchè le sue antenne e sensibilità sono parigine, i suoi polmoni inspirano e espirano al ritmo della città. Se Parigi sprizza scintille e vivacità il giornale corre spumeggiante, quando, come in questa fase, la città è ormai quasi soltanto capitale finanziaria e turistica, uniforme grigia e piuttosto noiosa, buona per vedere qualche mostra e appunto sedersi al Flore ricordando i vecchi tempi, il giornale barcolla e s’incurva su sè stesso, rattrappisce. Infine l’organismo, un giornale è una forma di vita,  potrebbe morire. Sul sito di Libération è stato pubblicato un video con alcuni numeri per questa forma di vita lunga quarantanni: 10.000 edizioni, 1 tonnellata e 80 chilometri di carta, 800 mila titoli, 2 miliardi di caratteri. In bocca al lupo perchè si propaghino per i prossimi quaranta (40).

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