La Siria era un Paese meraviglioso

Il racconto di un viaggio, prima della guerra

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/11/FacebookHomescreenImage.jpg[/author_image] [author_info]di Susanna Allegra Azzaro. Amo definirmi “cittadina del Mediterraneo”. Le mie origini si perdono tra Sardegna, Genova, Sicilia e Nord Africa, ma è a Roma che sono (casualmente) nata. Lavorare nella cooperazione internazionale mi ha dato la possibilità di vivere un po’ in giro nel mondo; la curiosità, invece, mi ha spinta a cercare di imparare il più possibile dalle culture con cui sono venuta a contatto. Tra il 2008 e il 2009 il lavoro mi porta in Medio Oriente e da allora esso continua ad essere una presenza costante nella mia vita. Recentemente vi sono tornata per approfondire i miei studi della lingua araba colloquiale “levantina”.[/author_info] [/author]

1 aprile 2014 – Questo post parla di un viaggio che ebbi la fortuna di fare nel non troppo lontano 2008. Se avessi voluto intraprendere oggi quello stesso viaggio, non avrei potuto; lì dove una volta rimanevi a bocca aperta per la bellezza dei luoghi e delle persone, ora regnano caos e odio. Perdonatemi se non voglio parlare del conflitto in corso, non è per vigliaccheria o per mettere la testa sotto la sabbia.

Sono convinta che di quello che sta accadendo in Siria dovremmo parlarne fino allo svenimento, ma non sono la persona più adatta per farlo; io questo conflitto non l’ho vissuto sulla mia pelle. Persone molto più informate di me raccontano su questo stesso sito storie d’orrore quotidiano che lasciano poco spazio all’immaginazione.

Io invece vorrei farla volare quella vostra immaginazione, descrivendovi ciò che ho visto e vissuto in quello che era uno dei paesi più belli al mondo.

Se oggi quando vedete un’immagine della Siria in tv avete la tentazione di girarvi dall’altra parte, sappiate che solo pochi anni fa quello stesso paese era così incantevole da togliere il fiato. Sono passati tre anni dall’inizio delle sofferenze per milioni di siriani; vorrei non ci si dimenticasse di loro e, al tempo stesso, vorrei che si ricordasse la Siria per quello che era.

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Non ho vinto praticamente nulla nei primi 30 anni della mia vita, pochi spiccioli al massimo nonostante le innumerevoli tombolate natalizie, biglietti della lotteria e concorsi online. Ma chi non ha fortuna nel gioco può però vantare una miglior sorte in altri campi, si sa, per cui, senza battere ciglio e alcun rancore per la dea bendata, ho accettato il fatto di essere uno di quei giocatori destinati a non vincere.

Poi un giorno ti arriva una mail di poche righe e, improvvisamente, alcune delle tue convinzioni cominciano a vacillare. A seguito di un’estrazione online, hai vinto un biglietto aereo per una destinazione a piacere e, in un attimo, senti di aver valicato il passo impervio che ti catapulta direttamente nel mondo dei “vincitori”.

Ti sinceri che non si tratti dell’ennesimo spam e decidi di regalarti una delle città più affascinanti di tutto il Medio Oriente: Damasco.

Niente, nel 2008, lasciava presagire che da lì a poco la Siria sarebbe diventata il paese del “male”; nemmeno per un attimo ho percepito la tensione che in altri paesi del Medio Oriente è talmente evidente da non poter eludere una qualsiasi forma di coinvolgimento personale.

La “mia” Siria, il meraviglioso paese che ho girato en solitude tra Damasco e Palmira, era la quintessenza del fascino orientale, scenario alla “Mille e una notte”. Popolata da gente istruita e aperta, Damasco ti stordiva con la sua bellezza e la sua diversità. Qui una volta convivevano pacificamente musulmani, cristiani ed ebrei insieme; la storia multiforme era evidente, e non solo nei vicoli o nei gioielli architettonici della città, ma nei visi degli abitanti stessi.

Le statue della Madonna per le stradine di Damasco mi parlavano di qualcosa di familiare, di casa, di sud, così come gli alberi di limoni o arance, il cui aroma si mescolava a quello delle spezie locali.

Il sole, piuttosto forte anche a novembre, si insinuava tra gli edifici bianchi del centro storico e nei numerosi patii della città. Uomini e donne bevevano caffè speziati e fumavano la shisha. Lì, come in un qualsiasi bar del sud del mio paese, il tempo era un bene prezioso, finalizzato al piacere e al prendersi cura di sé, e mai, come in un hammam, ne ho avuto la prova certa.

Generalmente in Europa la temperatura all’interno di un bagno turco è talmente elevata da poterci resistere al massimo una ventina di minuti. In Medio Oriente il calore è meno aggressivo e si può stazionare in un hammam anche due tre ore, rendendolo a tutti gli effetti un punto di aggregazione importante nella cultura locale. A Damasco, in un vecchio hammam malridotto fuori dai circuiti turistici, un gruppo di donne dalla forme morbide si strofinava il corpo con un guanto di crine. Sedute sul pavimento bianco e sprovviste di qualsiasi indumento, parlavano e ridevano tra di loro in maniera discreta. Circondate da una leggera nuvola di vapore, che faceva risaltare il nero dei loro capelli, passavano il tempo a eliminare il vecchiume dalla loro pelle e ad aggiornare le amiche sugli ultimi eventi della vita.

Viaggiare da soli è un’esperienza fantastica e che consiglio a tutti, sebbene ci siano momenti che vorresti tremendamente condividere con qualcuno per farli poi riaffiorare un giorno, magari davanti a un bel bicchiere di vino. Quello era decisamente uno di “quei” momenti.

Sono una convinta estimatrice dell’hammam e, tempo e clima permettendo, ogni tanto mi concedo volentieri questo vezzo. Pochi anni fa, proprio in Medio Oriente, ho scoperto che il cosiddetto “bagno turco” (hammam in arabo) fu esportato lì dagli antichi romani, i quali, arrivati in queste terre incantevoli più di duemila anni fa, lasciarono numerosi segnali del loro passaggio. In Siria, così come in Giordania, Libano e Libia si possono tuttora ammirare numerosi resti romani perfettamente conservati e, in alcun casi, circondati dal silenzio del deserto.

L’antica città di Palmira, a poche centinaia di chilometri da Damasco, è considerata, e a ragione, uno dei luoghi più affascinanti di tutto il Medio Oriente. Essendomi recata in Siria in bassissima stagione, non ho condiviso lo stupore di camminare per il sito archeologico con altri turisti; ero sola davanti allo splendore di una storia che mi parlava di origini, le mie, circondata da una distesa sconfinata di rocce e sabbia, il deserto.

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Ero sola a centinaia di chilometri dal mio paese, in un oasi nel bel mezzo del deserto siriano, eppure tutto intorno a me aveva il sapore di “casa”. In più di un’occasione ho provato quella stessa strana sensazione durante il viaggio.

Viaggiare sola non ha presentato nessun tipo di inconveniente, complici l’affabilità dei siriani e una rete di trasporti efficiente. Rispetto ad altri paesi del Medio Oriente, dove lo straniero è visto come una specie di dollaro ambulante, in Siria l’atmosfera era molto più rilassata e, con mia enorme sorpresa, non ho dovuto discutere con nessun venditore ambulante affinché mi lasciasse in pace. Nessuno si è mai sorpreso più di tanto del fatto che viaggiassi sola, tutt’al più in molti si sono prodigati per darmi consigli e farmi raccomandazioni di ogni genere.

Sono partita dalla Siria con l’entusiasmo e la convinzione che un giorno vi sarei tornata; all’epoca nutrivo il sogno di poterci vivere per un periodo della mia vita. Ora mi chiedo cosa rimarrà della Siria quando tutto sarà finito, quando si cominceranno a contare i danni, quelli fisici e quelli non visibili agli occhi. Mi chiedo se sarà mai possibile rimarginare quelle ferite, se ci sarà ancora fiducia nel prossimo, se avrà ancora senso un giorno pronunciare la parola “speranza”.

Un po’ mi consola il fatto che almeno Palmira sia stata, fino ad ora, risparmiata da quest’assurda ondata di violenza. Purtroppo la stessa sorte non è toccata all’antico minareto della Moschea Omayyadi, ad Aleppo, raso al suolo qualche mese fa. Con la pesantezza nel cuore penso alle parole di Dumas “aspetta e spera”, inerme e conscia del fatto che non c’è niente che io possa fare per la Siria.

O forse sì, qualcosa nel mio piccolo potrei farlo. Potrei continuare a parlare di un paese meraviglioso, che sembrava uscito da una fiaba, dove la gente per strada sorrideva e trovava ancora il tempo di chiederti “Ciao, come stai?”.

Vi giuro, un paese così esisteva e io l’ho visto con i miei occhi.

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