Una guerra epocale

Una retrospettiva per ricordare, a distanza di un secolo, l’inizio del primo conflitto mondiale. Alla Casa di Vetro di Milano, cinquantaquattro immagini in mostra gratuita fino al 18 aprile

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di Antonio Marafioti

 

Egli cadde nell’ottobre 1918, in una giornata così calma e silenziosa su tutto il fronte, che il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole: “Niente di nuovo sul fronte occidentale”
Erich Maria Remarque

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7 aprile 2014 – Cento anni dallo scoppio della Grande Guerra e il ricordo di un’intera generazione di giovani. La trincea che uccide e raffredda i corpi. Le suggestioni di quella Storia s’imprimono sul nervo ottico come la luce nel bromuro di argento, mentre la mente fa di tutto per allontanarne l’orrore. Sono pesanti allo sguardo, ma veloci all’Io. Segnano e cercano di scappare finché una fotografia non li cristallizza nella memoria.
La rassegna “Una guerra epocale”, alla Casa di Vetro di Milano fino al 18 aprile, ha questo grande pregio: quello di conservare e trasmettere il ricordo degli eventi. Sono cinquantaquattro le immagini, scattate tre il 1914 e il 1918, scelte dagli archivi inglesi, francesi e tedeschi dal curatore Alessandro Luigi Perna per “immergere il visitatore nell’atmosfera tragica, incredibile ed epocale di quella guerra”.

Sono foto di un confine che non è solo una linea nello spazio. È il primo decennio del Novecento, il secolo breve che inizia, male, il suo corso. Fra chilometri di terrapieni che segnano le nazioni come cicatrici di una vecchia, mal curata ferita, e le divise ottocentesche dei soldati tedeschi e austro-ungarici che, nel corso del conflitto, lasciano spazio alle mimetiche.

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La prosa di Remarque è il sottofondo lirico perfetto. Nei volti sofferenti o divertiti dei giovani al fronte, si cerca quello di Paul Bäumer e dei suoi amici commilitoni. C’è tanta freschezza ferita a morte, in quelle immagini. C’è uno smarrimento a doppio senso nello scorrerle una ad una: quello del soggetto ritratto, piegato dal male assoluto, e quello del suo osservatore, bloccato dalla percezione di un odio che andò oltre gli arsenali militari e il fuoco nemico.
Durante la guerra l’odio fu una professione, un dovere, una legge inesorabile contro ogni possibile istinto di pace. Qualcuno ci provò ad assaporarla, la pace, durante una tregua “non ufficiale” del Natale 1914. Lo scatto ritrae ufficiali britannici e tedeschi davanti all’obiettivo con la faccia di chi ha voglia di fraternizzare lungo la linea del Fronte Occidentale. Poi la contromisura, dura, adottata dagli Alti comandi per evitare che ciò accadesse.

Si represse sistematicamente ogni tentativo di avvicinamento al nemico; solamente i tribunali francesi condannarono a morte 400 soldati con l’accusa di ammutinamento.

Eppure il codice di guerra era quello di transizione. C’era ancora chi combatteva come nell’Ottocento, con spirito cavalleresco e un rispetto, oggi impensabile, per il nemico. Colpisce la foto che riporta alla memoria la storia dell’aviazione tedesca in cui prestavano servizio gli aristocratici del tempo, quelli che dopo avere abbattuto gli aerei avversari atterravano per sincerarsi che i sopravvissuti stessero bene.

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Poi la nuova tattica e i nuovi piloti che iniziarono a lanciare in volo il gas letale a mani nude. L’uso dei lacrimogeni fu inaugurato dai francesi, i tedeschi furono i primi a impiegarlo per uccidere. Erano gli albori della guerra chimica, alla fine si conteranno 85mila vittime per intossicazione da gas. Per proteggersi, un manipolo di soldati inglesi usò quelle maschere, che sembravano venute dal futuro, perfino per giocare una partita di calcio nelle retrovie del fronte Occidentale. Un soldato alleato statunitense sembra sfidare la sorte e farsi beffe della guerra mentre ride tenendo in mano la sua gas mask. Ridono anche due russi, nascosti sotto un covone di paglia in un punto qualsiasi della linea di fuoco Orientale. Era il 1917, pochi mesi prima della Rivoluzione d’ottobre che porterà i bolscevichi al comando di una delle più grandi potenze mondiali.

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La Prima guerra all’indomani di Caporetto è in uno scatto che ricorda l’ultima linea prima del tracollo. Si legge una scritta di vernice nera su una casa diroccata: “Tutti eroi! O il Piave o tutti accoppati”. L’esercito italiano resisterà per un anno sulla riva destra del fiume all’avanzata nemica. Poi vincerà definitivamente a Vittorio Veneto nonostante la sua fragilità fisica e psicologica: la storia narra che tra il 1917 e il 1918 fu uno degli eserciti più malnutriti fra quelli in lotta.
Il Piave è il luogo della leggenda, ma la guerra è stata anche madre di personalità leggendarie. Le ultime tre foto sono dedicate a loro. È uno sguardo bieco, caliginoso, di tedesco fiero, quello del capitano di cavalleria, Manfred Freiherr Von Richthofen, il barone rosso. Con il suo triplano Fokker Dr.i, abbatté ottanta apparecchi nemici per poi morire il 21 aprile 1918, a 25 anni, nei cieli francesi della Somme.
Thomas Edward Lawrence guarda le macerie sotto il suo albergo. Ha il capo cinto da un egal che appunta la sua kefiah. È Lawrence D’Arabia, tenente colonnello di sua Maestà britannica. Fu lui ad aizzare gli arabi contro gli ottomani salvando, di fatto, le sorti della Corona sul fronte africano.

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Infine una ballerina olandese, Margaretha Geertruida Zelle, alias Mata Hari. Passata agli annali di storia come la più famosa spia della Grande guerra. Al servizio della Germania, i francesi scoprirono la sua vera identità e la condannarono a morte per fucilazione nel 1917. Lo scatto in mostra la ritrae in una posa plastica, eterea, mentre indossa un vestito di scena che rende impossibile immaginarla impegnata in un lavoro di intelligence. Grazia e morte in un binomio irreale. La danzatrice libera nell’arte, e la sua nemesi prigioniera di politiche di morte. È il simbolo stesso di un passato che rese assassina e vittima, al contempo, un’intera generazione di giovani.

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