Serbia – Croazia: memorie divise

Davanti alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, con accuse reciproche di genocidio per la guerra degli anni Novanta

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/06/Schermata-2013-06-15-alle-20.39.17.png[/author_image] [author_info]di Francesca Rolandi. Storica, ha portato a termine un dottorato in Slavistica e si occupa di studi sulla Jugoslavia socialista. Ha vissuto a Belgrado, Sarajevo, Zagabria e Lubiana e ha provato a raccontarle per PeaceReporter, Osservatorio Balcani Caucaso, Cafebabel e Profili dell’Est[/author_info] [/author]

8 aprile 2014 – È iniziato alla fine di febbraio e terminato alla fine di marzo presso la Corte internazionale di giustizia dell’Aja il processo che ha visto Serbia e Croazia contrapposte da reciproche accuse di genocidio in relazione alla guerra degli anni Novanta.

Il team giudiziario croato ha cercato di dimostrare che negli anni Novanta fu consumato un genocidio ad opera delle forze armate serbe e ha richiesto il pagamento dei danni di guerra, la restituzione delle opere d’arte sottratte, la punizione dei responsabili militari e un aiuto effettivo nell’accertamento della sorte dei dispersi.

Nella contraccusa serba si affermava invece che sarebbe stata la Croazia a commettere un genocidio nel 1995 con l’Operazione Oluja (Tempesta) che avrebbe portato alla pulizia etnica di 250mila serbi dal territorio croato. Il team giudiziario nazionale ha richiesto il ritorno della popolazione serba espulsa dalla Krajina, il risarcimento delle proprietà sottratte, la punizione dei responsabili e la sospensione delle celebrazione nazionali connesse all’operazione Oluja in Croazia.

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E proprio il Giorno della vittoria e della gratitudine alla patria e ai difensori croati, celebrato come una festività nazionale in Croazia il 5 agosto può dare la misura delle interpretazioni confliggenti della guerra nei due paesi confinanti: per la Croazia il giorno della sconfitta della Repubblica serba di Krajina e l’inizio dell’offensiva finale che avrebbe portato l’esercito croato a riprendere il controllo sul territorio nazionale; per la Serbia lo slancio iniziale dell’Operazione Oluja che avrebbe significato la rovinosa sconfitta dell’esercito serbo e l’espulsione della popolazione serba dalle zone nelle quali aveva risieduto per secoli.

Secondo molti, il processo presso la Corte internazionale di giustizia testimonierebbe del fallimento della diplomazia, che avrebbe dimostrato la sua incapacità di arrivare a un compromesso e al ritiro di entrambe le accuse. Ma secondo altri, come la storica Dubravka Stojanović, invece, il processo potrebbe giocare un ruolo positivo perché metterebbe la parola fine a una delle numerose questioni aperte. Che si concluderebbe quasi sicuramente con un’assoluzione, dal momento che entrambi i paesi hanno minime possibilità di provare la colpevolezza dell’ex nemico.

Finora l’unico massacro caratterizzato dalla Corte internazionale di giustizia è stato quello di Srebrenica in Bosnia Erzegovina, nel quale perirono più di 8mila persone in una manciata di giorni, e che per modalità e numeri, non è paragonabile ad alcun altra strage di massa sul suolo europeo dalla fine della seconda guerra mondiale.

Tuttavia la questione che rimane aperta è quella delle relazioni tra Serbia e Croazia e di come su di esse potrà influire il processo dell’Aia. Alcuni anni fa i rapporti tra i due vicini avevano attraversato un periodo virtuoso, un riavvicinamento simboleggiato dai numerosi incontri tra i presidenti croato Ivo Josipović e serbo Boris Tadić. Il gelo è sceso tra i due paesi dopo l’inarrestabile ascesa del partito progressista in Serbia dalle elezioni del 2012.

Gli eredi dei radicali, forza di estrema destra nata negli anni Novanta, si sono rifatti una verginità politica con una svolta radicale e hanno barattato il dialogo con Pristina con un avanzamento nel processo di integrazione europea; con Zagabria, invece, i rapporti sono stati decisamente più freddi e, sebbene il primo ministro serbo Aleksandar Vucić e la Ministra degli esteri croata Vesna Pusić abbiano assicurato che il processo non avrà alcun effetto negativo sulle relazioni tra i due paesi, l’atmosfera non promette passi in avanti in nessuna delle questioni che realmente dividono i due paesi. Prima tra tutti, la sorte dei dispersi croati, la piena disponibilità a fare luce sulla sorte dei quali era stata la condizione, non soddisfatta, posta da parte della Croazia, per il ritiro dell’accusa.

Negli ultimi anni la questione dei dispersi nelle guerre degli anni Novanta è stata portata avanti dalla Coalizione regionale REKOM, che si propone di far luce sui fatti legati alla scomparsa di oltre 12mila persone nelle guerre degli anni ’90.

Inoltre, la strada che ha portato al processo è stata connotata da un forte coinvolgimento emozionale da parte delle opinioni pubbliche di entrambi i paesi, che più che mirare alla ricostruzione della verità storica sembra richiamare i capisaldi delle speculari narrazioni nazionaliste.

L’atto di accusa della Serbia, inoltre, porta indietro le lancette dell’orologio mettendo i fatti degli anni Novanta in relazione con quelli della seconda guerra mondiale e dello stato ustasa (i collaborazionisti croati filonazisti), nel tentativo di dimostrare come la Croazia abbia portato avanti nel corso del XX secolo un piano genocidario sulla sua minoranza serba.

Un passaggio utile a scaldare gli animi, ma assurdo a livello giuridico. Il fatto che le trattative per un ritiro bilaterale delle due accuse siano naufragati è un indice dell’irresponsabilità delle classi politiche dei due paesi, che non hanno né saputo né voluto affrontare le proprie opinioni pubbliche per mettere in discussione le narrazioni dominanti e il vittimismo costituzionalizzato nella memoria degli anni Novanta.

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