Il treno va a Mosca

Un film che racconta un’Italia che non c’è più – quella degli anni Cinquanta, quando almeno la metà degli italiani guardava all’Unione Sovietica come un modello cui aspirare – ma anche il crollo di quell’illusione

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/02/IMG_1396.jpg[/author_image] [author_info]di Roberto Cortelli. Nato a Bologna nel 1982, una laurea in Storia contemporanea e una in Geografia. Guida ambientale escursionistica, ha lavorato con uomini, donne, asini e bambini. È appassionato di natura a 360°, si definisce un esploratore delle superfici e dei meandri della terra. È divoratore di libri e di frutta secca.[/author_info] [/author]

7 maggio 2014 – Spesso si è propensi a criticare il contesto culturale del nostro Paese, si mettono in luce con rammarico le carenze di un sistema che non aiuta l’arte, si sorride in modo sarcastico pensando a chi ha pronunciato la frase “con la cultura non si mangia”. Poi si va per caso alla proiezione di un film documentario, Il treno va a Mosca, e si scopre una sala piena e una perla potente. Potente sia per i contenuti, perché mostra un’Italia che non c’è più e racconta la fine di un’illusione ma non di una speranza, sia per la storia personale che ha permesso a questo documentario di esistere.

Il film Il treno va a Mosca, presentato quest’anno al Torino Film Festival, nasce dall’incontro fra i due registi, Federico Ferrone e Michele Manzolini, e delle riprese amatoriali girate negli anni Cinquanta a Mosca e poco dopo in Algeria. Materiale depositato presso l’archivio nazionale del film di famiglia in attesa di essere riscoperto, capito.

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Questo eccezionale archivio, creato nel 2005 a Bologna su iniziativa dell’associazione Home Movies, garantisce la conservazione e la tutela del patrimonio dei film di famiglia e amatoriali archiviati come beni culturali di interesse nazionale. Ed è in questo “magma” di immagini che raccontano l’Italia e gli italiani con un ottica privata e personale che i due registi si sono imbattuti nel girato di due cineamatori di Alfonsine, piccolo comune romagnolo in provincia di Ravenna, e soprattutto nella storia di Sauro Ravaglia, protagonista del film e compagno di viaggio.

Quaranta rullini in formato super8 girati in occasione di un viaggio a Mosca fatto nel 1957. Un viaggio dal sapore eccezionale per un giovane barbiere di provincia, quale era Sauro, con pochi mezzi per partecipare al Festival mondiale della gioventù. Le immagini raccontano senza parlare (il super8 non ha audio) una Russia diversa dall’illusione maturata nell’Italia del dopoguerra. Oltre alla piazza Rossa e al mausoleo di Lenin, si vedevano le baracche dove vivevano gli operai, povertà e diseguaglianze. Immagini che – spiega Sauro al pubblico – era meglio non divulgare integralmente una volta tornati a casa nelle proiezioni amatoriali fatte in giro per la Romagna.

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Ma la fine dell’illusione non pone fine alla voglia di fare meglio, di capire, di andare avanti; anzi spinge, qualche anno dopo, i nostri cineamatori a volare nell’Algeria appena indipendente per conoscere i giovani di quel Paese appena divenuto libero.

La storia del film si conclude ai funerali di Togliatti, quando la cinepresa cade volutamente sul volto di un anziano signore che tiene la foto di Palmiro sul cappello. La fine di un’epoca, l’inizio di un’altra.

Il treno va a Mosca è uno di quei “prodotti” che merita di essere visto soprattutto per le domande che pone; non è proprio un documentario storico, ma un film sullo spirito di un’epoca.

E solo dopo averlo capito è comprensibile a pieno la potenza del gesto di Sauro, presente alla proiezione di sabato 3 maggio alla Cineteca di Bologna, che entrato nella sala piena prima dell’inizio della proiezione ha scattato una foto alla platea con la sua macchina fotografica. Non un gesto vanesio di una persona divenuta un poco “star”, ma la manifestazione di uno spirito da osservatore attento e critico che vuole documentare la realtà in modo onesto e sincero. Perché la storia va avanti, il mondo cambia e bisogna documentarlo prima quell’attimo sparisca per sempre.

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