IN COLOMBIA LA GUERRA PARTE DAL LETTO

Intervista ad Angela Maria Robledo, che da quattro anni porta in parlamento la prospettiva degli esclusi

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/12/Sandro_Bozzolo.png[/author_image] [author_info]di Sandro Bozzolo, da Bogotà (Colombia). Nato nei giorni di Chernobyl, ma duemila km più in qua. Ciò nonostante, ha iniziato a viaggiare muovendo i primi passi proprio verso Est. Nel 2008 ha scoperto l’esistenza di un sindaco che ha sostituito i vigili urbani con i clowns, e si è trasferito in Colombia. Da lì in poi, una continua attrazione verso storie sconclusionate, “di sconfitta in sconfitta verso la vittoria finale”. Oggi realizza film documentari e fa il dottorando senza borsa in migrazioni e processi interculturali. Entrambe le cose confluiscono nella maschera di Geronimo Carbonò, www.geronimocarbono.org  [/author_info] [/author]

 

17 maggio 2014 – Nella primavera 2010, in vista delle elezioni presidenziali previste per il 30 maggio, un’inedita partecipazione politica attiva pervase la Colombia, terra di conflitti irrisolti che nel corso del tempo hanno lasciato spazio a una profonda apatia verso tutto ciò che riguarda la rappresentanza cittadina. Era la cosiddetta “ola verde”, la marea verde scatenata dalle proposte pedagogiche e creative di Antanas Mockus, ex Rettore ed ex Sindaco di Bogotà, che pochi mesi prima aveva creato una forza politica nuova, il Partido Verde.

Quattro anni più tardi, la Colombia si prepara a una nuova tornata elettorale. A dieci giorni dalle elezioni, previste per il 26 maggio, il successo del presidente uscente Juan Manuel Santos pare scontato, a coronamento di una politica altera, impegnato nella conservazione dello status-quo. Lo stesso Partido Verde, dopo le dimissioni di Mockus, si è presto convertito in un’entità dal linguaggio tradizionale, nonostante il suo candidato presidente, Enrique Peñalosa, venga indicato come il principale avversario di Santos.

Di quella sorprendente ondata di rinnovamento, l’unica superstite, nella politica rappresentativa colombiana, è Angela Maria Robledo, psicologa e ricercatrice universitaria, premiata dal portale Cifras y Conceptos come “miglior donna al Parlamento” e recentemente rieletta per la prossima legislatura. Q Code Magazine l’ha incontrata a Bogotà, per conoscere l’effettivo potenziale di una rappresentazione politica attiva, in un Paese in trasformazione.

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Sono arrivata al Congreso della Repubblica [equivalente al Parlamento italiano] sulla scia di quindici anni di incontri, conversazioni e analisi all’interno del cosiddetto Gruppo Federici, un collettivo di analisi multidisciplinare fondato dall’indimenticato professore Carlo Federici, matematico e pedagogo immigrato da Genova a Bogotà dopo la Seconda Guerra Mondiale. Federici ha sempre cercato di abbattere ogni barriera tra l’accademia e la società, tra l’educazione e l’azione pratica. E io sono d’accordo con il filosofo francese Michel Serres, quando dice che, dopo aver superato il neolitico, l’era industriale e l’epoca della comunicazione, stiamo entrando nell’era della pedagogia.

Come è possibile mettere in pratica quest’impostazione, agendo all’interno di dinamiche parlamentari?

Tutto è ancora da fare. Un punto di partenza fondamentale passa dai laboratori di formazione politica, che nella scorsa legislatura ho cercato di sviluppare, non solo con i colleghi del Partido Verde, ma anche con persone del Polo Democratica e della ASI, un’organizzazione molto vicina agli indigeni. Quarant’anni di guerra civile, e questo capitalismo selvaggio, hanno avuto l’effetto devastante di depoliticizzare l’opinione pubblica, di favorire un clima di timore, nei confronti dell’azione politica. Nonostante io sia stata eletta alla Circoscrizione di Bogotà, da quattro anni mi muovo su tutto il territorio, soprattutto nelle zone rurali, dove esiste una reale “Colombia Profonda”, per sviluppare laboratori in cui una determinata legge, spesso sconosciuta e lontana ai cittadini, si converta in uno strumento capace di restituire dignità alla vita delle persone.

 Chi sono questi cittadini a cui fa riferimento?

Sono soprattutto i giovani, gli anziani, le minoranze afrocolombiane, e le donne. Vittime di un sistema culturale che si è forgiato sulla violenza. Le pratiche violente, in Colombia, non si limitano alle cosiddette “zone rosse”. Per le donne colombiane, spesso è il letto, il primo territorio di guerra. È proprio lì che c’è bisogno di una profonda trasformazione pedagogica, educativa, culturale, e questa metamorfosi deve crescere all’interno di una dinamica collettiva. Come insegnava Federici, “si tratta di un io che si incontra con un tu, e per questo si converte in un noi”.

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È possibile dire che il vostro approccio è portatore di una nuova concezione, distante dalle accezioni con cui solitamente siamo portati a raffigurarci l’idea di “azione politica”?

Tu oggi trovi una Colombia diversa rispetto a quella di sette, otto anni fa. È un insieme di voci indignate, che nello stesso momento hanno scelto di rendersi manifeste, e si è qualificata in un movimento di cui la partecipazione politica attiva è solo una parte. Il loro messaggio è chiaro: “nonostante tutto quello che è successo, rinunciamo alla violenza”. Si tratta di un processo, che si gioca nei termini mockusiani di “legge”, “morale” e “cultura”. E se Antanas lo ha sviluppato partendo da un concetto semplice, “la vita degli esseri umani è sacra”, io amplierei ancora il concetto, e direi che la vita nelle sue diverse espressioni è sacra, e lo direi in relazione con te che sei in Italia, perché solo riconoscendo quest’interdipendenza è possibile agire collettivamente.

Cosa significa sviluppare questo linguaggio, in una società come quella colombiana?

Confrontarsi con il nucleo del problema. Perché questo è un sistema culturale completamente patriarcale. La guerra stessa esacerba le relazioni patriarcali. La conseguenza è che la politica rappresentativa, in Colombia, è totalmente patriarcale. Nelle sue pratiche, nei suoi gesti, nel suo linguaggio. Per le donne, fare politica rappresentativa risulta essere più difficile che per gli uomini. Richiede molto più sforzo, perché portare avanti la nostra agenda, che non è solo quella delle donne ma anche quella dei bambini, degli esclusi, dei giovani, è molto più difficile. Produce maggiore prestigio parlare di economia, di risorse naturali, di infrastrutture, piuttosto che concentrarsi su questi aspetti più quotidiani come l’acqua, la natura, l’alimentazione. Tutto questo riflette una lotta di poteri generata dalla cultura patriarcale, e che ha fatto della differenza un oggetto di discriminazione.

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Nella legislatura appena conclusa, oltre ad essere co-presidente della Commissione di Pace della Camera, lei è stata anche membro della “Commissione integrale per l’equità” della donna. Tra le aule del Parlamento ha trovato appoggio ed empatia?

Raramente. È piuttosto evidente che il fatto di avere un corpo da donna non significa necessariamente aver compiuto un cammino da donna. Come scriveva Simone De Beauvoir, “donne non si nasce, donne si diventa”. E con tutti i problemi che abbiamo avuto, dal paralimitarismo alla parapolitica, al Parlamento arrivano molte donne che semplicemente hanno ereditato la poltrona da mariti, cugini e parenti che stanno avendo adesso problemi con la giustizia. Non esiste quindi una coscienza su quello che potrebbe significare poter contare su una prospettiva femminile al Congresso della Repubblica, perché di questo si tratta. Tradurre in azione politica una coscienza che l’azione quotidiana, il sistema culturale colombiano ci ha trasmesso.

Come vede le prospettive politiche, per i prossimi quattro anni?

Terribili. Il panorama attuale mi sembra desolante. Nessuno dei candidati mi convince. Scegliere tra Santos e Peñalosa è fondamentalmente lo stesso. Entrambe sono figure dell’establishment. Non vedo nessuna possibilità di coalizione tra la sinistra e i gruppi indipendenti. Ci abbiamo provato, ma alcuni membri del Polo si sono opposti.

È Santos ad avere tutto da perdere, con la sua apparenza di uomo democratico, mentre in realtà le sue proposte di legge avanzate al Parlamento hanno avuto l’unico obiettivo di privatizzare ancora il sistema di salute, di educazione e di giustizia. Ha destinato milioni di dollari al bilancio di guerra. Mi sarà perdonata l’espressione, ma si tratta di un linguaggio veramente schizofrenico. Da un lato vengono portati avanti gli Accordi di Pace di L’Avana [tra il Governo e le FARC, ndr], dall’altro c’è un Ministro della Guerra che non fa altro che parlare di terrorismi, che ancora ci minacciano… Si fa finta di non riconoscere le cause di questa situazione. I terroristi sono arrivati lì perché siamo uno dei Paesi più diseguali al mondo. Il 2% dei colombiani controlla il 60% delle terre coltivabili. La recente destituzione del Sindaco di Bogotà, Gustavo Petro [per vizi formali, ndr] lo dimostra. Petro ha commesso alcuni errori di gestione, però ha provato a cambiare il modello.

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Angela Marìa, un’ultima domanda. Quattro anni fa, ha realmente creduto che Antanas Mockus potesse diventare Presidente?

C’è stato un momento in cui l’utopia impossibile diventò improvvisamente ipotizzabile. Un momento in cui effettivamente il Paese ha aperto questa possibilità. Però, oltre ai nostri errori commessi nell’ultimo mese di campagna elettorale, nella Colombia Profonda esiste una vera e propria “macchina elettorale” che si fonda sulla compravendita di voti. Inoltre, qualcuno di noi ha avuto l’impressione che a un certo punto Antanas si sia letteralmente consegnato. Non bisogna dimenticare che all’interno del Gruppo Federici, Mockus era la componente più anarchica. Ha vissuto una fase anarchica, e fu in quel periodo che il Rettore dell’Universidad Nacional lo invitò a costruire, anziché distruggere. Forse sono solamente mie impressioni, vagamente psicanalitiche, però è interessante pensare alle dinamiche di un cambio di prospettiva a 180°, che lo portò a riflettere sui sistemi di autoregolamento di una società, sul rapporto tra legge e cultura.

 

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